A CAMALDOLI SI È CONCLUSA LA 57ͣ SESSIONE DEL SAE

Si è conclusa sabato al Monastero di Camaldoli la 57ͣ sessione di formazione ecumenica del Segretariato Attività Ecumeniche (Sae) sul tema «Racconterai a tuo figlio» (Es 13,8) Le parole della fede nel succedersi delle generazioni. Una ricerca ecumenica (I). Tra gli ultimi appuntamenti l’assemblea dei partecipanti con le loro risonanze sull’esperienza vissuta, e la restituzione dei lavori dei laboratori. È stata una sessione gradita per il luogo, dove la Comunità monastica camaldolese ha offerto più di una buona ospitalità accogliendo i partecipanti alla sessione nelle proprie liturgie e condividendo quelle programmate dal Sae. Sono piaciuti i contenuti in un’elaborazione che ha rispecchiato le diverse declinazioni del cristianesimo e la comune radice ebraica, e ha mantenuto uno stile amicale. Apprezzato il lavoro del gruppo “preghiera e liturgia” che ha animato le celebrazioni.

Quest’anno è aumentato il numero dei partecipanti giovani: studenti, seminaristi, catechisti impegnati nelle rispettive chiese che hanno potuto assaporare il clima degli inizi del Sae nella serata dedicata alla fondatrice Maria Vingiani, rievocato dalla nipote Francesca e da socie e soci che hanno collaborato con Maria. Dai racconti e dai ricordi informali sono emersi l’intelligenza, il coraggio e l’amore per i giovani della Vingiani, pioniera dell’ecumenismo in Italia quando ancora il Concilio Vaticano II doveva dare i suoi frutti. Alcuni giovani erano presenti nei laboratori come co-conduttori e uno di loro, Daniele Parizzi, monitore valdese, è intervenuto nell’ultima tavola rotonda sulla recezione e trasmissione della Parola. Spesso ci troviamo di fronte, ha detto, a tempi disorganici e spazi inadeguati. Se gli spazi non sono adeguati qualcuno è escluso. Oggi i giovani tendono a vivere la fede come fatto personale. C’è bisogno di una chiesa diffusa, di imparare l’evangelo dal mondo, là dove la Parola si fa carne».

Padre Ionut Radu, presbitero ortodosso romeno, in una relazione con un risvolto sociologico si è soffermato sul rapporto con le tecnologie digitali che sono lo spazio in cui, scoppiata la pandemia, anche le chiese hanno veicolato le azioni liturgiche. Secondo Radu quelle in streaming non sono autentiche liturgie, ma “devozioni”. Ha poi affermato che, nonostante ciò, «la presenza ecclesiale nella comunicazione virtuale è importante perché occorre conoscere gli strumenti e utilizzarli per relazionarsi al mondo di oggi. Ci sono tantissime narrazioni, anche noi abbiamo uno spazio e non siamo più primi come pensavamo».

Ultimo, ma non ultimo, l’intervento a due voci che ha suggellato la sessione e ha visto allo stesso tavolo il presidente del Sae Piero Stefani e la predicatrice valdese Erica Sfredda, animatrice del gruppo “preghiera e liturgia”. Nel suo intervento Sfredda ha ripercorso i momenti e l’atmosfera della sessione, l’accoglienza e la partecipazione fedele dei monaci, ha riconosciuto che la chiamata a quest’esperienza non viene da uomini e donne ma dal Signore. «Siamo arrivati con le nostre storie e bagagli pesanti e ci abbeveriamo alle stesse fonti. L’ecumenismo è avere un nuovo stile di vita aperto all’altro, al migrante, al collega; è un modo nuovo di affrontare la vita» ha concluso.

Piero Stefani, leggendo un apologo autografo che ha come protagonista la lente di papa Giovanni XXIII - appartenuta poi a Loris Capovilla e ricevuta in dono dal Sae da Francesca Vingiani - ha commentato alcuni snodi della sessione concludendo: «La speranza, non meno che la grazia, è sempre a caro prezzo».

TUTTE E TUTTI PROFETI

«La comunità cristiana è anche una comunità di profeti dove le voci si rispettano, non si impongono, si compongono e si sottopongono al reciproco discernimento in vista della edificazione della crescita di tutto il corpo di Cristo». È il cuore della meditazione di Maria Paola Rimoldi, membro del Gruppo teologico del Sae, che ha inaugurato, nella preghiera, la penultima giornata della sessione di formazione ecumenica a Camaldoli. La teologa pentecostale, proponendo il “canto e controcanto” dal libro del profeta Gioele (cap.3,1) e dagli Atti degli Apostoli (cap. 2,16-17) ha mostrato come «la Scrittura commenta l’interno di sé stessa consegnandoci come accostarci al testo e come aprirci a nuove scoperte e relazioni a partire da essa». La riflessione della teologa, che «si è nutrita anche dei pensieri e dei vissuti condivisi giorno dopo giorno nel succedersi del narrare», ha individuato una scansione in tre tempi che tiene conto anche di noi: «un passato remoto che guarda al futuro; il passato prossimo che riconsidera il suo presente; il presente dei nostri giorni che torna a guardare alle radici del suo passato per trovare nuovo slancio, un ciclo che si compie in un succedersi di tempi e generazioni. La parola profetica di Gioele, richiamata già negli Atti a suggellare gli inizi del tempo della chiesa, risuona anche alle nostre orecchie chiara e attuale chiedendo ancora attenzione». La buona notizia valida per ogni tempo è che, di fronte alla fallibilità degli esseri umani e alla loro richiesta di pentimento, la risposta del Signore sopravanza, supera ogni aspettativa: il suo stesso spirito, la Ruach, sarà sparsa su ogni “carne”. Questo si avvera con la Pentecoste, quando arriva il Consolatore, che porta libertà e la potenza che ha risuscitato Gesù dai morti. Lo Spirito scompiglia la realtà per ricostruire una nuova visione delle cose e fondare una nuova comunità in cui le differenze sono rispettate e valorizzate, dove le parole risuonano nella lingua di ognuna e ognuno e sono comprensibili a tutte e tutti di qualsiasi provenienza siano. Questo si avvera anche oggi, continua Rimoldi, in modo inclusivo come profetizza Gioele: sia le figlie sia i figli, nominati singolarmente, hanno ricevuto l’investitura di farsi portavoce della Parola di Dio. Un altro aspetto inclusivo del messaggio, sottolineato dalla teologa, è che «con la venuta dello Spirito giovani e vecchi non sono posti su un piano verticale, ma sono su un piano di contiguità e di collaborazione. Tutti sono chiamati contemporaneamente e si muovono insieme su uno spazio orizzontale di rispetto, ammirazione e compartecipazione paritaria in cui ciascuno arricchisce l’altro con il frutto del suo dono». Questo deve essere tenuto presente quando parliamo di trasmissione intergenerazionale.

La profezia, che Paolo raccomanda a tutte e tutti (1 Corinzi 14), «è spirito di denuncia verso tutto ciò che opprime; è spirito di rivelazione che mostra la volontà di bene di Dio per le nostre vite; è spirito di consolazione che incoraggia e conforta chi è debole e affaticato. Essere profetici comporta uno sforzo un impegno costante verso la venuta del Regno ma anche un’attenzione alla storia in cui viviamo con i suoi testimoni, è continua aspirazione a fare incontrare queste due dimensioni. Ognuno dia poi al termine profezia il significato che sente più suo. Una volta fatta la nostra scelta agiamo in ragione di questo dono. L’invocazione di Mosè – “fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo Spirito” – può dirsi allora realizzata».

Il pomeriggio è stato dedicato all’ascolto di una storia sospesa tra il dolore e la costruzione di un futuro diverso con la narrazione di Valeria Khadija Collina intervistata dal caporedattore di Avvenire Riccardo Maccioni. La donna, madre del giovane Youssef Zaghba, ucciso dalla polizia a Londra il 3 giugno 2017 dopo aver provocato la morte di otto persone, ha rievocato i fatti accaduti all’interno della storia della famiglia. Il suo accompagnamento di madre, in una situazione in cui alle difficoltà di un nucleo esposto alla disgregazione si aggiungevano le sollecitazioni jihadiste verso i più fragili veicolate attraverso la rete, non ha potuto seguire fino in fondo il figlio per salvarlo da una situazione estrema rimasta in penombra. Il coraggio di pronunciare questa storia è lo stesso con il quale Valeria Collina racconta la propria storia e quella di suo figlio nelle carceri minorili a chi è stato vittima della radicalizzazione e si è fermato a un passo prima dell’abisso. La donna ha accettato di partecipare a un progetto dedicato ai giovani adescati dal terrorismo e si sta impegnando ad approfondire i testi sacri dell’Islam, a farne una rilettura femminista, e a veicolare il tema del dialogo interreligioso attraverso il teatro, disciplina a cui si era dedicata da universitaria. La sua testimonianza ha lasciato un grande segno nell’assemblea in ascolto.

La giornata si è conclusa con la liturgia ecumenica conclusiva nell’atrio della chiesa del Monastero seguita dall’ingresso dello Shabbat, con l’accensione delle candele da parte della professoressa Laura Voghera Luzzatto, moglie dell’indimenticabile Amos Luzzatto, scomparso nel 2020, studioso ebreo simpatizzante del Sae, e la preghiera del Kiddush recitata da Sandro Ventura di Shir Hadash, congregazione di Firenze della Federazione italiana per l’ebraismo progressivo (Fiep).

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Nell’esperienza della sessione di formazione ecumenica del Sae in corso al Monastero di Camaldoli i diversi momenti di studio - relazioni, laboratori, meditazione – stanno intrecciando pensieri e riflessioni che accrescono la declinazione del tema e giorno dopo giorno aprono percorsi sulla trasmissione delle parole della fede, tema di quest’anno.

Una meditazione a due voci, di Lidia Maggi e Angelo Reginato, pastora e pastore battisti, ha aperto la giornata di giovedì 29 luglio. Prendendo spunto dalla genealogia di Gesù Cristo secondo Matteo il dialogo tra i due, marito e moglie nella vita, ha messo in luce il carattere aperto di una costruzione seppur ordinata, che apre delle brecce. La genealogia matteana, ha osservato Reginato, «tiene insieme particolare e universale, le biografie singole e il Dio di tutti». E ci interroga sulle nostre origini di credenti, ha rilevato Maggi: «La genealogia di Gesù mi interroga sulla genealogia della mia fede. So riconoscere che non ci siamo fatti da soli, che la fede passa attraverso i corpi dei testimoni che hanno custodito e trasmesso una memoria? So dire chi sono io, da dove vengo? So pagare i debiti a chi mi ha trasmesso una storia?».

Tra gli antenati di Gesù compaiono figure femminili – Tamar, Ruth, Racab, la moglie di Uria – che hanno una storia eccedente le regole della società in cui vivono. Tamar viola la legge per restarle fedele. Donne ai margini, ma è attraverso questi margini, questi interstizi che passa una nascita rivoluzionaria che inserisce anche Miriam all’interno di una genealogia di donne alternative. «Nell’insieme queste donne sono un monito per la chiesa di fronte all’oblio delle tante storie femminili – ha continuato la pastora -. Sono grata al Sae di custodire la memoria di Maria Vingiani. Un impegno ecumenico, per fedeltà a questa genealogia, è custodire la memoria pericolosa delle donne, e la memoria fragile di coloro che ci hanno preceduto nella fede che rischiano di cadere nell’oblio. Noi tendiamo nelle aggregazioni ecumeniche a consegnare di noi una genealogia un po’ patinata, i nostri punti di forza. Non è giunto il momento di raccontare anche a partire dai nostri oblii, dai conti che non tornano e da una memoria sovversiva?».

Dalle radici della nostra fede, impiantate in un terreno non sempre piano ma non per questo infecondo, con la relazione di sala si è passati al contesto post-moderno che ospita i credenti e le credenti chiamati ad abitare la terra con bagaglio leggero e “a due a due”. Al tavolo Bernardo Gianni, abate di San Miniato al Monte (Firenze), luogo decretato da parte dell’Unesco Patrimonio mondiale dell’umanità. L’abate ha sviluppato il tema “«Andate a due a due senza portare nulla». I credenti ospiti nella società postmoderna” facendo ampio ricorso al linguaggio della poesia contemporanea. Spunto di apertura sono stati i versi di “Opus florentinum” di Mario Luzi, dedicati alla Cattedrale di Firenze, «officina delle anime», che parla di sé stessa e delle generazioni da cui è stata abitata nella speranza che altri fedeli verranno: «Vorrei che gli ultimi fossero dell’anima i più esperti, i più degni del cielo». Ha commentato Gianni: «Questi versi delineano l’architettura di un passaggio generazionale in una prospettiva di grande speranza, di grande apertura al futuro, in una dimensione che fa delle chiese un luogo di passaggio. Luoghi inclusivi ma non detentori di una presenza. Quindi spazi da attraversare, tempi da attendere. «Leggere e vivere i tempi, non misconoscerli è ancora parte del ministero – ha continuato l’abate –. Non è che dei tempi offriamo interpretazioni di comodo, li soffriamo, sono nel nostro essere chiese alla ricerca di una sostanza di futuro. Questo vorremmo umilmente proporre attraverso il ministero della speranza alle nuove generazioni perché ci attraversino. Ma abbiamo un vuoto dove rimbomba il silenzio, dove riecheggia una parola che cerchiamo di ascoltare, di incarnare come fosse il germoglio che porta un fiore nostro nuovo senza che diventi una certezza, un talismano».

Del brano del capitolo 6 di Marco, Gianni ha rilevato come i discepoli, inviati a due a due senza nulla se non il bastone e i sandali – rimando pasquale - dipendono dalla prossimità e sono depotenziati in ogni autorità e ricchezza. «Restano nella prospettiva di un’autorevolezza conferita dal Signore che scava, toglie, come Gesù è colui che si è lasciato scavare. I nostri giovani sono stanchi di tante parole, confini e ideologie. Hanno bisogno di sentirsi ospitati in un vuoto, diversamente dai loro vuoti esistenziali e da un’incertezza che li spaventa. Ospitati da un vuoto dove rimbomba un silenzio che ha una sua eloquenza, che è cercare Dio, metterci in ascolto della sua Parola. Un’attitudine che raccoglie le nostre chiese sotto questo primato della Parola».

La giornata si è chiusa con l’Eucaristia presieduta da Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli, coordinatore dei Colloqui ebraico-cristiani. La sua omelia ha sottolineato dell’invio in missione dei discepoli secondo il vangelo di Matteo una parola - gratuitamente – che dice il dono di Dio, un Dio «narrato, che abbiamo conosciuto grazie alla narrazione di altri, che abbiamo in qualche modo “ricevuto”. È un Dio dei volti, dei nomi, delle storie che non si lascia incontrare nei libri o nei catechismi, ma nelle persone che “da vivo a vivo” lo narrano e lo annunciano». Davanti a questo Dio noi siamo, come dice il Libro delle Cronache proclamato nella liturgia, “stranieri” e “pellegrini”, «un uomo e una donna che non ha nulla da dare che non abbia gratuitamente ricevuto. Per questo l’unica vera azione che il credente può fare è ringraziare e lodare il nome del Signore. Ecco come si racconta la fede: “gratuitamente”, senza equipaggiamento, ma con la consapevolezza di poter offrire solamente ciò che abbiamo ricevuto. E nell’Eucaristia troviamo proprio il magistero della trasmissione della fede: qui, alla mensa del Signore, tutto riceviamo gratuitamente, per fare della nostra vita un dono gratuito ad immagine di colui che ci ha amato fino alla fine».

MARIA VINGIANI:
UNA MEMORIA VIVA E POTENTE

La lente di papa Giovanni XXIII e il biglietto che accompagnava il dono da parte di monsignor Loris Francesco Capovilla, segretario di papa Roncalli, a Maria Vingiani, ora fanno parte dell’archivio del Sae. Li ha ricevuti a Camaldoli il presidente Piero Stefani dalle mani di Francesca Vingiani al termine della serata in memoria della fondatrice del Sae, scomparsa a Mestre il 17 gennaio 2020. La nipote di Maria, insieme a Stefano Ercoli, Paolo Ricca, Adelina Bartolomei, Traian Valdman, ha portato una testimonianza su diversi aspetti – più o meno noti - della vita della donna che è considerata la pioniera dell’ecumenismo in Italia. Il ricordo rievocato a Camaldoli, che fa parte di una trilogia in iniziata online e che si concluderà in ottobre alla Facoltà valdese di teologia, è una memoria viva che si fa esperienza: «Maria e il SAE, Maria e la Sessione sono un tutt’uno» ha detto Ercoli. Una memoria calda senza cedere a sentimentalismi, potente in un tempo in cui anche l’ecumenismo vive una stagione incerta nella trasmissione generazionale. Adelina Bartolomei, che incontrò Maria Vingiani nel 1967, l’ha ricordata come «educatrice e impegnata nella battaglia per la verità».

Il racconto della nipote, Francesca Vingiani, si è basato su due paradigmi: “lasciare andare” e “tenere insieme”. «Lasciare andare era la capacità di affidare con libertà interiore. Maria lasciò la carriera politica, Venezia, città amatissima e i familiari. E non è che non le sia pesato andarsene. A un certo punto lasciò anche la presidenza del Sae, scelta travagliata per l’amore genitoriale che aveva per questa creatura, fatta per evitare la personificazione. E poi ha dovuto lasciare la vita a cui era legata per la quale aveva un grande senso di gratitudine». “Tenere insieme”, in Maria, ha continuato la nipote, è stata «l’arte sapiente di affrontare le divergenze e le diversità, di cercare il dialogo. La missione della sua vita è legata al tema della formazione delle coscienze: nella politica, nella scuola, nell’ecumenismo. Ha promosso processi per costruire il futuro».

Stefano Ercoli, che iniziò a frequentare la fondatrice del Sae da ragazzo, ha rievocato che «Maria aveva una predilezione per i giovani, non a caso l’insegnamento è stata una parte importante nella sua vita. Con la sua grande forza d’animo è riuscita a conciliare il gravoso impegno ecumenico con l’insegnamento che le poteva assicurare quell’autonomia economica di cui era molto gelosa, attraverso la quale finanziò anche il Sae». L’appartamento della Vingiani, a Roma, «era un crocevia di persone, nel suo studio, vuoi per un confronto, un consiglio, uno scambio sui temi all’ordine del giorno del dibattito tra le Chiese, passavano cardinali, vescovi, pastori, preti ortodossi, e non solo. In quei rapporti spesso informali, ma densi, a volte riservati, sono stati preparati e favoriti molti degli eventi significativi che hanno tracciato il cammino ecumenico in Italia».

Per Paolo Ricca, che approdò al Sae da giovane pastore, Maria Vingiani «non è stata solo pioniera dell’ecumenismo in Italia, è stata la persona che ha fatto più di qualsiasi altro l’ecumenismo in Italia. Non solo quantitativamente, perché l’ecumenismo di Maria e del Sae è qualitativamente il migliore in Italia perché riflette quella che è l’impostazione dell’ecumenismo che troviamo nel Consiglio Ecumenico delle Chiese. Lo stile ecumenico, rimasto invariato per sessant’anni, è il vero tesoro del Sae». Per il pastore valdese Maria Vingiani è stata una maestra di ecumenismo in quanto «mi ha guidato piano piano in un lungo processo a imparare a guardare la chiesa cattolica dal papa in giù come una chiesa sorella. Noi protestanti, dopo secoli di persecuzioni e angherie, non eravamo abituati a questo».

L’arciprete ortodosso romeno Traian Valdman ha sottolineato il particolare calore con cui fu accolto dalla fondatrice la prima volta che partecipò a una sessione, nel 19880, invitato da lei. «Si comportava come se mi avesse conosciuto da una vita. Disse presentandomi agli altri: “Finalmente abbiamo un fratello ortodosso tra di noi”. Era una donna autorevole, una grande comunicatrice e organizzatrice. Collegava idee ed esperienze. Concepiva le sessioni del Sae come fraterno incontro, scambio teologico e occasione per le chiese di farsi conoscere. Parlava con lo stesso pathos della laicità e dell’interconfessionalità del Sae. E spiegava: laico per la rivalutazione del ruolo dei laici nella chiesa, interconfessionale per anticipare nell’esperienza e testimoniare l’ecclesialità piena del corpo mistico del Cristo».

CULTO DI SANTA CENA
SIMONELLI: DEPATRIARCALIZZARE IL NOME DI DIO

La sessione ecumenica del Sae a Camaldoli è a metà del suo corso. Martedì sera nel chiostro della chiesa del monastero è stato celebrato il culto di Santa Cena con la predicazione della pastora Ilenya Goss, della Chiesa valdese di Mantova, animato da pastore, pastori e laiche e laici di diverse chiese riformate italiane. Nell’assemblea erano presenti i monaci della Comunità camaldolese che ospitano la sessione nella foresteria del Monastero. «La Parola ci costituisce come assemblea in ascolto» ha detto Goss nella predicazione sul brano finale del Vangelo di Matteo in cui Gesù convoca i discepoli prima di separarsi definitivamente, con la promessa “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine dell’età presente”. Nel mandato consegnato ai discepoli, definito in genere missionario e finalizzato alle conversioni, in realtà c’è tutt’altro spirito, ha detto la pastora. «Gesù dice “andate a discepolare”: vivete la vita di discepoli e chiamate altri a vivere come discepoli, a entrare in relazione con il Maestro. Fare discepoli passa da discepoli a discepoli ma uno solo è il Maestro. Siamo chiamati a condividere il dono ricevuto senza esserne proprietari». Al termine è stata raccolta una colletta, devoluta a favore di un progetto per bambini in difficoltà del Burkina Faso attraverso fratel Enzo Biemmi.

Mercoledì si è svolta l’intervista in streaming a cura di Sabina Baral, da Torino, con il teologo valdese Paolo Ricca, collegato da Roma, e la teologa cattolica del Coordinamento teologhe italiane (Cti) Cristina Simonelli, presente a Camaldoli nella Sala del Landino. Le domande si sono spinte oltre il titolo dell’incontro “«Padre Nostro che sei nei cieli”: come dire Dio oggi»: qual è il rapporto tra il bisogno crescente di serenità e pace e la ricerca di Dio, come risolvere la dicotomia tra le vicende drammatiche del mondo e il desiderio di felicità, cosa significa fare teologia nelle periferie esistenziali, qual è il contributo più alto che le teologie delle donne possono portare alla ricerca di Dio.

Per Paolo Ricca «cercare Dio significa cercare pace e serenità. Non bisogna credere che la ricerca della pace sia evasiva, che sia un’operazione egoistica, è invece vitale. Naturalmente la ricerca di Dio non è solo questo, ma è anche questo. Non dobbiamo temere di cercare Dio cercando queste cose». Il pastore ha detto di ritenere compatibile il desiderio di felicità nella prospettiva riconciliata del mondo destinato alla trasfigurazione. Nella modernità la felicità è stata inserita come diritto nella Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776. Nella Bibbia la felicità è un dono, non un diritto. Il discorso della montagna che dice “beati”, cioè felici, è legata al Regno di Dio. É legittimo in mezzo al dramma quotidiano la ricerca della felicità perché in tutto questo il Regno si è avvicinato.

Per Cristina Simonelli, già presidente del Cti, vivere, come ha fatto per venticinque anni, in un campo rom «è stato un allargamento dei confini. Riconoscere tutti come figli, figlie, padri e madri. Non l’ho vissuto come un’alternativa, io non riesco a distinguere la mia vita, la grazia che ho ricevuto per avere i piedi lì e la teologia delle donne. Uno dei motivi per cui sono andata è stato: “voglio provare se il ‘Padre nostro’ tiene”. Non mi ponevo la domanda su padre e madre, ma su ‘nostro’. L’ho vissuta come promessa mantenuta. Questo aspetto della preghiera del ‘Padre Nostro’ è stato importante, una parola profetica».

Il contributo delle teologie delle donne alla ricerca di Dio Simonelli lo definisce con tre elementi mutuati da un libro della collega Elisabeth Green: manomissione, profondità, rispetto. «Manomissione non è solo scardinare, è anche liberare le persone e la Scrittura. Profondo rispetto per la Tradizione senza lasciare niente fermo, rovesciando. Per rispetto e obbedienza manomettere, cioè aprire tutto e cercare di liberare tutto. Liberare, attraversare i trattati teologici e la Scrittura».

Della preghiera del “Padre Nostro” la teologa ha sottolineato che nella versione di Matteo è introdotta dall’invito a non fare come i pagani, a non sprecare parole. Un inquinamento delle parole è avvenuto nella nominazione del padre che è stata usata nei secoli per giustificare il potere e il patriarcato. «A Gesù è stato dato ogni potere in cielo e in terra, non a noi». La parola padre si può tenere ma accompagnata a madre. «È importante depatriarcalizzare. L’annuncio dell’evangelo e l’Abbà pronunciato da Gesù dice in che modo intendere padre e madre. Padre non è il nome di Dio, ma è cifra di relazione, origine della vita e custodia, paterna e materna. Non vogliamo sostituire madre a padre. Teniamo entrambi, teniamo la complessità delle differenze tra uomini e donne e anche tra confessioni. Potremo affermare la ricchezza della comunione come differenze riconciliate e riconvertite dal tarlo originario della gerarchizzazione».

Nel pomeriggio i partecipanti alla sessione sono saliti a piedi al Sacro Eremo per una visita guidata dal priore. La serata è stata dedicata alla memoria della fondatrice del Sae, Maria Vingiani, con testimonianze della nipote Francesca Vingiani e di collaboratori e collaboratrici.

QUALI PAROLE PER DIRE LA FEDE OGGI?

Alla sessione del Sae al Monastero di Camaldoli i lavori di martedì si sono aperti con la preghiera nella quale Romina Vergari, dell’Università di Firenze, ha tenuto una meditazione biblica sulla quarta Parola: “Onora tuo padre e tua madre”. Il precetto di Esodo 20,12 di onorare i genitori – ha detto – si attua attraverso la parola e l’azione e chi lo osserva è colmato delle benedizioni del Santo. La promessa di una ricompensa non compare in altri comandamenti, questo fatto dice l’importanza della relazione verso il padre e la madre. Anche i genitori hanno doveri morali verso i figli e le figlie, tra i quali il maggiore è il compito educativo che è citato anche nella preghiera dello Shemà: “queste parole che oggi ti comando… le inculcherai ai tuoi figli”. Vergari ha sottolineato la forza di questo verbo utilizzato per dire la trasmissione generazionale, forma che richiama espressioni della letteratura profetica come quella in Geremia 31,33: “porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore”, che evoca il linguaggio teofanico del Sinai. L’autorità del padre e della madre deriva in primis dalla funzione educativa. La responsabilità della trasmissione della Torah è di entrambi.

L’appuntamento di sala della mattinata, a due voci, ha avuto al centro l’espressione “Credo, aiuta la mia incredulità” (Mc 9,24) accompagnata dalla domanda “Quali parole per dire la fede oggi?”. Al tavolo della Sala del Landino, presentati da Daniela Guccione del Comitato Esecutivo del Sae, William Jourdan, pastore valdese a Genova, e Lucia Vantini, da giugno presidente del Coordinamento teologhe italiane.

Nell’introdurre il brano, William Jourdan ha sottolineato la dichiarazione di fede sincera e paradossale del padre del ragazzo posseduto da uno spirito muto: l’uomo ripone la sua fiducia in chi gli sta davanti e al tempo stesso sente dentro di sé una forza contraria che lo muove all’incredulità. Questo è lo spunto per la comunità cristiana ecumenica, ha detto il pastore, per riscoprire quali parole possano condurre oggi all’affermazione della fede con la stessa sincerità che caratterizza il protagonista di questo episodio evangelico. «Quali parole, dunque, mi consentono di dire la fede – credo, aiuta la mia incredulità – e quali parole possono aiutare altri a fare propria questa confessione?» ha affermato. Riprendendo articoli di Giovanni Miegge, Jourdan indica una tensione tra la parola e l’azione anche nel dire la fede, e il rischio per la persona di concentrarsi solamente sulle proprie possibilità. «L’esempio mi riempie di orgoglio. L’altruismo mi fa star bene. Se confessare la fede significa riconoscersi aiutati da un Altro da sé, l’esempio, l’altruismo, il praticismo si muovono in direzione opposta». Jourdan sottolinea che non si vuole negare il fatto che l’esempio altrui possa interrogare e accompagnare anche nella formulazione della fede, ma dubita che esso possa essere l’unico criterio valido. «All’esempio – come espressione del soggetto che afferma sé stesso – è posto accanto il criterio sovrano – e oggettivo – della verità di Dio. Verità che non è un concetto astratto ma nel Vangelo di Giovanni è lo stesso Gesù Cristo. È lui l’unica parola di Dio, attestata nella Scrittura, che le nostre parole devono pronunciare e far risuonare». Come? Rimandando a una storia e non a un’idea. Storia che è «un intreccio di relazioni, vita nella comunione di Cristo. Io mi trovo accolto nella sua storia, perché egli vive e muore per me e io risorgo con lui. Dire la fede significa quindi prima di tutto invitare a scoprire questo spazio di comunione con Cristo: è all’interno di questo spazio – tracciato dal dialogo che lo precede – che il padre del ragazzo malato pronuncia la propria confessione di fede». Secondo il relatore, il compito principale delle chiese è quello di essere testimoni della storia di Dio che prende forma nel nome di Cristo e riorienta radicalmente la vita dell’essere umano.
Anche Lucia Vantini è partita dal carattere paradossale della dichiarazione di fede del padre del ragazzo, una fede che convive con l’incredulità, «in un equilibrio instabile che di continuo richiede nuovi assetti e che dunque non deve essere risolto né rimosso». Per la teologa si tratta del carattere stesso del cristianesimo, che vive di luci e di ombre, la cui radice, o piuttosto “matrice”, l’ebraismo, «nasce e si nutre di un “orizzonte del forse” capace di sbilanciare i soggetti dalla parte della speranza». Nella dialettica tra croce e risurrezione, tra divino e umano, la fede cristiana «appare come affidamento a un Dio che più si fa vicino e solidale più si rivela misterioso, eccedente, inafferrabile e oscuro». Vantini rileva che la domanda dell’uomo narrato da Marco non dipende solo da questo «nucleo perturbante che inquieta la fede» ma è espressione della sofferenza impotente per la malattia del figlio che è la sua sofferenza. E rileva: «Si sollevano di nuovo e con forza le domande essenziali della fiducia e della fede: qual è il modo giusto di rappresentare il rapporto tra il divino e l’umano, tra la realtà e la speranza, tra questo mondo e il Regno? È davvero saggio far credito alla vita anche quando tutto sembra andare male?». Gesù, continua la relatrice, definisce incredulo non solo il padre ma un’intera generazione, «incapace di uno sguardo pasquale sulle vite ferite», forse a causa di veleni che infettano credenti e non credenti e provocano resistenze al Regno assimilate anche attraverso la cultura religiosa. Una situazione che non è solo dei tempi di Gesù. e che richiama – conclude la presidente del Cti - «le tante scene di vita in cui il mondo religioso diventa ostacolo alla fioritura delle storie, rivelando di aver assimilato i veleni dell’indifferenza e della convenienza da cui invece si sente e si dichiara immune, e che purtroppo contribuisce a instillare e a diffondere nelle comunità. È dunque arrivato il momento – per tutte e per tutti – di pronunciare parole aurorali». Per le comunità cristiane si tratta di «avvertire la responsabilità di accompagnare le storie ferite verso un altro destino da quello che il mondo prevede», ma per fare questo occorre pregare, occorre «chiedere aiuto in uno sbilanciamento che dà credito alle vite ferite». Solo così sarà possibile una trasformazione.
Nel pomeriggio sono iniziati gli otto laboratori che declinano il tema generale della trasmissione delle parole della fede negli aspetti teologico, pedagogico, della prospettiva ebraica e cristiana, nella prospettiva di genere, nella musica e nella letteratura.

COME E COSA RACCONTARE AI NOSTRI FIGLI E ALLE NOSTRE FIGLIE

Prosegue la sessione di formazione ecumenica del Sae al Monastero di Camaldoli. La modalità della narrazione, fondamentale nella trasmissione delle parole della fede sia nell’ebraismo che nei Vangeli, è stata oggetto lunedì pomeriggio dell’incontro con il catecheta Enzo Biemmi, della Congregazione dei Fratelli della Sacra Famiglia, e con la pastora metodista Ulrike Jourdan, direttrice della rivista “La scuola domenicale”, membro di una coppia pastorale con il pastore valdese William Jourdan, entrambi in servizio in due chiese valdesi a Genova. Nelle due relazioni non sono mancate le testimonianze della dimensione familiare, primo luogo in cui bambine e bambini vivono il loro primo incontro con le parole della fede. Enzo Biemmi ha rievocato il ricordo della zia Maria che in una corte padana gli raccontava le storie di Giuseppe e dei suoi fratelli, un racconto che trasmetteva «quello che oggi chiamiamo speranza: la vita può essere affrontata con fiducia perché è custodita dalla paternità di Dio». Accanto a questa narrazione verbale, il bambino Enzo beneficiava di “racconti viventi” costituiti da adulti testimoni e da un ambiente vitale “iniziatico”. Come catecheta, Biemmi ha definito la fede cristiana come una storia, la storia di una relazione, un’alleanza che nel Primo Testamento Dio stringe con il suo popolo. Non si tratta di un evento del passato ma di «una relazione in corso, una storia aperta. Tutto in Cristo è stato donato, ma tutto è ancora aperto alla sorpresa, fino al suo ritorno». Se è un Dio delle sorprese è una storia sempre da raccontare, al cui centro sta la bella notizia dell’amore di Dio e del fatto che «gli esseri umani non sono esseri viventi votati alla morte ma esseri mortali destinati alla vita». Per essere vero, per attivare una vera comunicazione, il racconto su Gesù deve intrecciare tre storie: «la storia narrata, quella di chi ascolta, quella del narratore». Per raccontare Gesù e i suoi seguaci devo conoscere la storia della persona a cui mi rivolgo, entrare nel suo contesto, e raccontare come la vita di Gesù ha toccato la mia e mi ha salvato. Citando il teologo Christoph Theobald, Biemmi ha affermato che dai racconti scaturiscono tutti gli altri linguaggi: i riti, le confessioni di fede, i dogmi, la morale, la riflessione teologica. Senza racconto essi perdono vitalità o scadono nel moralismo. Il racconto resta il linguaggio fondativo della vita cristiana il cui punto di arrivo è la dossologia, la lode, «e non c’è linguaggio più alto».

Anche Ulrike Jourdan ha evocato dapprima immagini del vissuto familiare come madre, segni e gesti messi in atto, anche di derivazione biblica, che non hanno bisogno di spiegazione, e racconti, in viaggio e in casa. Il tavolo della cucina è il luogo più importante della casa attorno al quale la mattina si legge insieme la Parola del giorno, si pongono domande sulla fede e dove stendere la tovaglia è percepito come un gesto liturgico. Il canto, il ciclo delle feste, le preghiere rituali, i grandi temi della vita sono veicoli di trasmissione per far percepire ai bambini come la loro piccola storia è inserita nella storia di Dio. Come pastora, Jourdan affianca i genitori nella crescita all’incontro con Gesù di figlie e figlie. Le comunità – ha detto - hanno un ruolo importante in questo affiancamento. Non sempre facile perché, in ogni confessione cristiana, ci sono chiese più o meno aperte all’infanzia. Di qui l’appello: «Comunità, non tiratevi indietro, dite quello che avete da dire, raccontate vostre storie ai bambini. Hanno piacere di sapere come e perché siete diventate cristiani. Avete tanto da dire ai bambini».  Nello stesso tempo, la pastora vede questo movimento non unidirezionale: «Ho impressione che le nostre chiese hanno tanto bisogno di bambini e bambine come loro hanno bisogno delle chiese. La fede oggi ha perso profondità. Abbiamo bisogno delle domande e della gioia dei bambini per riscoprire la bellezza della nostra fede».

Al termine, nella chiesa del Monastero, l’arciprete Traian Valdman, del Decanato ortodosso romeno di Milano, ha presieduto il Vespro ortodosso e ha predicato sul testo paolino “Vi ho trasmesso quello che io stesso ho ricevuto”. Accanto a lui il presbitero ortodosso russo padre Vladimir Zelinskij.

Dopo cena l’accoglienza e l’introduzione alla sessione a cura di Livia Gavarini, del gruppo Sae di Pinerolo (TO), attraverso un excursus verbale e fotografico, integrato da varie testimonianze, sulla storia dell’associazione fondata da Maria Vingiani a Roma nel 1964. Diverse le presenze di nuovi partecipanti alla sessione, interessati a conoscere la storia e la vocazione del Sae.

“COMUNICARE, COMPRENDERSI: VITA E LINGUAGGIO”
LA RIFLESSIONE DI DAVIDE ASSAEL

Il linguaggio è uno specchio dell’esperienza che facciamo del mondo. La relazione ebraico-cristiana è uno dei luoghi sensibili nei quali il linguaggio svela quali rapporti, quali intenzioni si sono instaurate da secoli e quali mutamenti sono intercorsi fio a oggi. Ne ha parlato il filosofo Davide Assael, presidente dell’Associazione “Lech Lechà” di Milano, intervenuto nella prima mattinata della sessione di formazione ecumenica del Sae in svolgimento a Camaldoli. “Comunicare, comprendersi: vita e linguaggio” è il titolo della sua riflessione. Un tema molto sensibile - ha esordito lo studioso - tra i conduttori di “Uomini e profeti” - citando le polemiche sorte a Pasqua da affermazioni emerse nella comunicazione giornalistica che dimostrano la persistente presenza di stereotipi nella comprensione dell’ebraismo e della relazione ebraico-cristiana. «Il linguaggio non è fine a sé stesso ma richiama un’esperienza che nel caso della relazione ebraico-cristiana è legata alla teoria della sostituzione, cioè l’interpretazione del cristianesimo come compimento del mondo ebraico e quindi come suo sostituto». Assael ha offerto diversi esempi sulle forme attraverso le quali questo paradigma si è riversato nel linguaggio: Vecchio Testamento in contrapposizione a Nuovo Testamento, mutamento dei valori morali della Torah a partire dalla prospettiva evangelica, una lettura di figure bibliche che ribalta la prospettiva ebraica. Lo studioso vede un cambiamento con il Concilio Vaticano II: «una grandissima svolta culturale. Come può essere concretizzata sul piano linguistico? Vedo una maggiore attenzione sui termini che indicano il rapporto». Come frutti del Concilio vede un’interpretazione della Torah con la Torah, il riconoscimento dell’ebraicità di Gesù e l’interpretazione delle parole di Gesù a partire dall’etica ebraica. Ma in questo modo, si è chiesto, dove sta la novità della parola di Gesù? E se c’è novità allora c’è superamento e quindi si ritorna alla sostituzione. Assael ha proposto al posto della diade Antico e Nuovo Testamento “la Torah e i Vangeli” «perché secondo me bisogna avere il coraggio di pensarsi come due tradizioni indipendenti l’una dall’altra, sapendo che abbiamo una prospettiva comune indipendentemente dal linguaggio». Forse per entrare in relazione dobbiamo separarci dalla fratellanza. Nella Torah la fratellanza è descritta come massima situazione di contrasto. Forse dobbiamo pensarci come soggetti “non fratelli”.

Assael si dice molto interessato alla relazione ebraico-cristiana «non solo per il dialogo interreligioso ma anche perché tutto questo ha nutrito e nutre l’immaginario culturale europeo.  Nei momenti di crisi sociale, questo immaginario culturale mai elaborato, riemerge con la carica di violenza che lo ha accompagnato. O noi elaboriamo un nuovo linguaggio, cioè un nuovo paradigma teologico, o non riusciremo a scardinare questi virus di intolleranza. Assael conclude affermando l’importanza di salire a Camaldoli per un tema come quello odierno proposto dal Sae o per i quarantennali Colloqui ebraico-cristiani: «Si spera che poi da qui le persone trasferiscano elaborazioni su un piano successivo che riguarda la società nel suo complesso».

Al termine si è sviluppata una ricca discussione con interventi e domande tra il relatore e l’assemblea formata da membri di confessione cattolica e protestante e di religione ebraica. Assael ha ampliato le affermazioni sull’ebraicità di Gesù che parla la voce dell’universalismo ebraico ma eccede i limiti dell’universalismo ebraico.

Il presidente del Sae, Piero Stefani, ha ribadito che i luoghi contano e il tavolo della Sala del Landino, luogo in cui si svolgono le plenarie, ha una ricca tradizione di temi interconnessi con la riflessione del Sae, associazione interconfessionale di laiche e laici la cui specificità è l’impegno per l’ecumenismo e il dialogo “a partire dal dialogo ebraico-cristiano”.

È INIZIATA AL MONASTERO DI CAMALDOLI (AR)
LA 57ͣ  SESSIONE DI FORMAZIONE ECUMENICA DEL SAE

È iniziata con una preghiera interconfessionale lunedì al Monastero di Camaldoli (AR) la 57ͣ sessione di formazione ecumenica del Segretariato Attività Ecumeniche (Sae), in programma fino al 31 luglio, sul tema «Racconterai a tuo figlio» (Es 13,8) Le parole della fede nel succedersi delle generazioni. Una ricerca ecumenica (I). La gioia del ritrovarsi finalmente con i propri corpi ha caratterizzato il momento iniziale della prima giornata dei lavori. L’immagine offerta all’assemblea dal gruppo liturgico, da custodire in questa sessione, è quella del seme che arricchisce la terra con i suoi frutti. «Per noi i semi sono le parole della fede che sono donate da Dio. A noi sta farle sviluppare e germogliare dentro di noi. La verità di ognuno dei nostri semi sarà rivelata alla venuta del Signore. Non basta dire sono credente, bisogna avere la costanza di coltivare il seme della parola». I giorni di Camaldoli, per le oltre centotrenta persone di diverse confessioni cristiane e di fede ebraica, convenute qui da ogni parte d’Italia, sono stati posti sotto il motto di Alex Langer: «“Più lenti, più in profondità, più dolcemente” per accogliere dentro di noi la reciproca fratellanza e sorellanza. Per sorridere insieme e confrontarci, per fare silenzio, per trovare pace della preghiera e nella meditazione».

In apertura il presidente Piero Stefani, in diretta streaming, ha richiamato i saluti e gli auguri della Moderatora della Tavola Valdese, Alessandra Trotta, e del presidente della Commissione episcopale Ecumenismo e dialogo della Cei, il vescovo di Pinerolo Derio Olivero, che hanno sottolineato l’importanza per tutte le Chiese della trasmissione delle parole della fede. La relazione di Stefani, alla fine del suo mandato di presidenza, ha delineato il contesto in cui si svolge la sessione: un tempo nuovo in cui il Covid e le procedure d’urgenza intraprese dalle autorità civili hanno variato il piano della comunicazione e hanno avuto ricadute economiche e psicologiche con forti differenze dal punto di vista generazionale e lavorativo. «Dire, come si è detto nel 2020, “siamo tutti sulla stessa barca” è un’illusione. Il virus è universalistico ma questo dato non basta a creare un’uguaglianza effettiva. Siamo nella stessa nave con differenze forti tra prima classe, seconda classe, stiva, ruoli di comando, posizioni subordinate. Ci sono differenze sempre più nette, ad esempio sulle modalità di procacciarsi il reddito».

Il mondo della comunicazione interpersonale, ha continuato Stefani, ha lati complessi: ha visto il distanziamento ma anche l’esaltazione del “con”: il convivente, il congiunto. La famiglia è stata come una specie di nido, non solo affettivo, che consente una forma di comunicazione che nell’orizzonte amicale è stata depotenziata. Il distanziamento ha inciso anche sulle modalità delle comunicazioni intraecclesiali. La comunità dei credenti in Cristo è nata nella comunione, ed è stata significata nel Nuovo Testamento con l’immagine del corpo, ma ha dovuto prendere misure restrittive, con risposte varie a seconda delle comunità. «Emerge quindi l’interrogativo di quale capacità testimoniale proviene da una situazione non creata e antitetica al messaggio delle comunità cristiane». Qui si pone anche il problema del succedersi delle parole della fede di generazione in generazione, tema al centro delle giornate di Camaldoli. Le parole “fate questo in memoria di me” fanno parte di un racconto ricevuto da Paolo come dal Signore attraverso testimoni. «Non si trasmette la fede – ha spiegato il presidente del Sae - ma una parola, un racconto. Se la fede fosse trasmesse sarebbe una trasmissione etica, ambientale, sarebbe la cristianità. La fede invece è dono, grazia. Ma se non ci fossero i racconti della fede nessuno crederebbe perché per credere bisogna mettersi in un cammino già percorso da altri. La fede la ricevi e la scegli. L’annuncio deve essere accolto e sottoscritto». Quale annuncio in tempi della storia così travagliati? «Le parole della fede dicono che la storia non avrà la parola ultima e il succedersi non sarà per sempre, ci sarà una realtà di Dio diversa. Se qualcuno non ce lo trasmette non lo sappiamo. Niente della realtà che vediamo ci rende convinti che sia così. Che ci sia la catastrofe è più evidente che ci siano cieli e terra nuova. Ma i racconti della fede in Gesù Cristo da duemila anni ci hanno trasmesso una ulteriorità».

Il primo intervento degli ospiti è stato quello di Silvana Di Nepi, docente alla Sapienza di Roma, intervenuta via streaming con lo studio “Mi dor le-dor” (Di generazione in generazione). La storica, specialista dell’età moderna, ha analizzato la resistenza degli ebrei nei ghetti in Italia durante i secoli e l’importanza dell’educazione comunitaria qui elaborata dalle confraternite che ha permesso la trasmissione alle giovani generazioni della lingua, dello studio della Torah, delle preghiere e della conoscenza del mondo esterno per sapere anche come rispondere alle istruzioni conversionistiche.

È seguita la relazione del filosofo, presidente dell’Associazione “Lech Lechà”, Davide Assael sul tema “Comunicare, comprendersi: vita e linguaggio”. Nel pomeriggio l’incontro a due voci “Lo racconterete ai vostri figli e alle vostre figlie” con Enzo Biemmi e Ulrike Jourdan.

DA DOMENICA 25 LUGLIO AL MONASTERO DI CAMALDOLI (AR)
LA 57ͣ  SESSIONE DI FORMAZIONE ECUMENICA DEL SAE

Domenica al Monastero di Camaldoli (AR), nel cuore delle Foreste casentinesi, si riuniscono da diverse regioni d’Italia i partecipanti alla 57ͣ sessione di formazione ecumenica del Segretariato Attività Ecumeniche (Sae), in programma fino al 31 luglio. L’associazione interconfessionale di laiche e laici per l’ecumenismo e il dialogo a partire dal dialogo ebraico-cristiano ripropone il suo appuntamento più importante, che è come un filo rosso che la collega alla sua nascita. Nel 2020 un’interruzione, dovuta al primo anno di pandemia. Non essendone ancora usciti del tutto, il Sae ovvierà alla obbligatoria limitazione delle presenze con la trasmissione in streaming, attraverso il proprio canale YouTube, degli appuntamenti di sala indicati sul sito dell’associazione: www.saenotizie.it Certo i collegamenti in rete non restituiscono il valore principale della sessione, un’esperienza multiforme di incontro, ascolto, condivisione, confronto – quest’anno nella cornice salubre e contemplativa di Camaldoli – ma almeno offrono le declinazioni portanti del tema della settimana, sul tema: «Racconterai a tuo figlio» (Es 13,8) Le parole della fede nel succedersi delle generazioni. Una ricerca ecumenica (I). Una questione comune oggi a quasi tutte le chiese che vivono l’interrogativo di come trasmettere l’annuncio evangelico alle nuove generazioni che sempre più si allontanano da contesti in cui non si sentono coinvolti e da linguaggi che non raggiungono la loro interiorità.

La dimensione della narrazione, fondamentale sia nell’ebraismo sia nei Vangeli, alimenta la trasmissione midor le-dor – di generazione in generazione - dei racconti della fede.
Alla sessione ci si confronterà su come e con quali parole raccontare Dio oggi e su come dire la fede negli spazi e nei tempi della società postmoderna. E anche in che modo pensare Dio “quando le scelte dei figli sconcertano”, come emergerà dalla testimonianza di Valeria Khadija Collina - fondatrice dell’associazione Rahma, madre di Youssef Zaghba, uno dei giovani responsabili dell’attentato a Londra del 3 giugno 2017 - in dialogo con Riccardo Maccioni, caporedattore di Avvenire.

La settimana a Camaldoli si svolgerà tra relazioni in plenaria, laboratori, interviste, meditazioni, liturgie confessionali ed ecumeniche, scambi informali tra i partecipanti e un pomeriggio libero per passeggiare in foresta o per visitare il Sacro Eremo, alcuni chilometri sopra il Monastero. La sessione, di alta qualità formativa, è nota per il clima di dialogo e amicizia che si crea in un’assemblea sempre variegata per confessioni e provenienze geografiche.

Interverranno con relazioni in sala docenti – Serena Di Nepi (Università La Sapienza), Enzo Biemmi (Pontificia Università Lateranense), Simone Morandini (Istituto studi ecumenici San Bernardino), Romina Vergari (Università di Firenze) –, esponenti del Coordinamento teologhe italiane: Cettina Militello, Cristina Simonelli, Lucia Vantini; membri delle Chiese – il teologo valdese Paolo Ricca, la predicatrice valdese Erica Sfredda, la pastora Ulrike Jourdan, il presbitero ortodosso Ionut Radu – ed esponenti dell’ebraismo: Davide Assael e Sandro Ventura.

I laboratori esamineranno il tema generale in diversi aspetti: l’annuncio come racconto, i percorsi ecumenici, le parole e i gesti della liturgia, la catechesi, la comunicazione della fede nella prospettiva di genere, la pastorale della cura del creato, l’evangelizzazione come apertura all’altro, dire Dio attraverso la musica e la letteratura.

Animeranno i laboratori, tra gli altri, i teologi cattolici Brunetto Salvarani e Simone Morandini; la pastora battista Lidia Maggi, la pastora valdese Ilenya Goss, la storica Bruna Peyrot, la teologa pentecostale Maria Paola Rimoldi, il monaco Matteo Ferrari, il monitore valdese Daniele Parizzi, la docente ebrea Sarah Kaminski, i presbiteri cattolici Gianfranco Bottoni e Nandino Capovilla; suor Elsa Antoniazzi, il presbitero ortodosso Vladimir Zelinskij; il pastore valdese William Jourdan, il pastore battista Angelo Reginato, la pedagogista cattolica Francesca Antonacci.

Un gruppo interconfessionale, formato da Alessandro Martinelli, Erica Sfredda e Margherita Bertinat, si occuperà dell’animazione delle preghiere mattutine e della liturgia.

Una serata della sessione sarà dedicata alla fondatrice Maria Vingiani con testimonianze di collaboratori e collaboratrici che l’hanno affiancata per anni e della nipote Francesca.

«Racconterai a tuo figlio» (Es 13,8)
LE PAROLE DELLA FEDE NEL SUCCEDERSI DELLE GENERAZIONI
       Una ricerca ecumenica (I)
         COMUNICATO N. 0
DAL 25 AL 31 LUGLIO 2021 AL MONASTERO DI CAMALDOLI (AR)
          LA 57ͣ  SESSIONE DI FORMAZIONE ECUMENICA DEL SAE


Dopo la pausa del 2020 dovuta alla pandemia torna la sessione di formazione ecumenica del Segretariato Attività Ecumeniche (SAE) dal 25 al 31 luglio al Monastero di Camaldoli. Per l’associazione interconfessionale di laiche e laici per l’ecumenismo e il dialogo a partire dal dialogo ebraico-cristiano è un ritorno alle origini. Proprio nelle Foreste casentinesi si svolsero alcune delle prime sessioni (1967-1970) ideate dalla fondatrice del Sae Maria Vingiani, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. E il Sae fu stimolo determinante per la nascita, quarantadue anni fa, dei Colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli.

Il tema della settimana in programma per il 2020 - «Racconterai a tuo figlio» (Es 13,8) Le parole della fede nel succedersi delle generazioni. Una ricerca ecumenica (I) non ha perso la sua importanza, anzi è di estrema attualità. Oggi tutte le Chiese vivono l’interrogativo di come trasmettere l’annuncio evangelico alle nuove generazioni che sempre più si allontanano da contesti religiosi in cui non si sentono coinvolti e da linguaggi che non raggiungono la loro interiorità.

La dimensione della narrazione, fondamentale sia nell’ebraismo sia nei Vangeli, alimenta la trasmissione midor le-dor – di generazione in generazione - dei racconti della fede.
Alla sessione si parlerà di come oggi raccontare Dio e dire la fede negli spazi e nei tempi della società postmoderna. E anche in che modo pensare Dio “quando le scelte dei figli sconcertano”, come emergerà dalla testimonianza di Valeria Khadija Collina, fondatrice dell’associazione Rahma, madre di Youssef Zaghba, uno dei responsabili dell’attentato al London Bridge.

La settimana a Camaldoli prevede relazioni in plenaria, interviste, gruppi di lavoro, liturgie confessionali ed ecumeniche, momenti conviviali e un pomeriggio libero per camminate in foresta o una visita all’eremo. A parte la qualità dell’offerta formativa, l’aspetto che più connota l’esperienza è il clima di dialogo e amicizia che si crea in un’assemblea variegata per confessioni e provenienze geografiche.

Tra le relatrici e i relatori ci sono docenti – Serena Di Nepi (Università La Sapienza), Enzo Biemmi (Pontificia Università Lateranense), Simone Morandini (Istituto studi ecumenici San Bernardino), Romina Vergari (Università di Firenze) –, membri delle Chiese – il teologo valdese Paolo Ricca, la predicatrice valdese Erica Sfredda, la pastora Ulrike Jourdan, il presbitero ortodosso Ionut Radu – ed esponenti dell’ebraismo: Davide Assael e Sandro Ventura; esponenti del Coordinamento teologhe italiane: Cettina Militello, Cristina Simonelli, Lucia Vantini.

I laboratori esamineranno il tema generale in diversi aspetti: l’annuncio come racconto, i percorsi ecumenici, le parole e i gesti della liturgia, la catechesi, la comunicazione della fede nella prospettiva di genere, la pastorale della cura del creato, l’evangelizzazione come apertura all’altro, dire Dio attraverso la musica e la letteratura.

Animeranno i laboratori, tra gli altri, i teologi cattolici Brunetto Salvarani e Simone Morandini; la pastora battista Lidia Maggi, la pastora valdese Ilenya Goss, la storica Bruna Peyrot, la teologa pentecostale Maria Paola Rimoldi, il monaco Mateo Ferrari, il monitore valdese Daniele Parizzi, la docente ebrea Sarah Kaminski, i presbiteri cattolici Gianfranco Bottoni e Nandino Capovilla; suor Elsa Antoniazzi, i presbiteri ortodossi Gheorghe Vasilescu e Ionut Radu; il pastore valdese William Jourdan, il pastore battista Angelo Reginato, la pedagogista cattolica Francesca Antonacci.

Alessandro Martinelli, Erica Sfredda e Margherita Bertinat formano il gruppo interconfessionale che si occuperà della preghiera e della liturgia.

Una serata della sessione sarà dedicata alla fondatrice Maria Vingiani con testimonianze di familiari e di collaboratori e collaboratrici.

Saranno garantiti il rispetto delle norme per il distanziamento e collegamenti in streaming. Per il programma e le iscrizioni (entro il 30 giugno) scrivere a: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., oppure ai numeri 335.8074745; 333.3643659 dal lunedì al venerdì 9-12; 13-16.