Comunicato stampa n.8
Una serata della sessione Sae in corso a Camaldoli è stata dedicata all’ascolto della testimonianza e delle riflessioni di dom Matteo Ferrari, priore della Congregazione monastica Camaldolese e del confratello Claudio Ubaldo Cortoni, bibliotecario e archivista presso il Sacro Eremo. L’ascolto dei due monaci ha allargato la comprensione del contesto nel quale i partecipanti alla Sessione stanno vivendo una singolare esperienza di formazione ecumenica. Dom Ferrari ha parlato di un rapporto di reciprocità tra la foresta e i due nuclei che formano la realtà di Camaldoli – l’Eremo e il Monastero –, «un’unica comunità che vive due dimensioni diverse: l’Eremo che sottolinea la dimensione della vita solitaria e il Monastero che sottolinea la dimensione comunitaria. Sono due poli in dialogo tra loro che si aiutano a vivere le due dimensioni».
Il priore ha poi letto brani da una delle fonti antiche di Camaldoli che prendendo spunto dal profeta Isaia racconta la vita monastica attraverso sette alberi piantati nel deserto (Is 41,19). «I monaci hanno imparato dalla foresta a parlare di sé stessi. Ogni albero rappresenta una virtù. Il primo albero che rappresenta la vita monastica è il cedro, albero dal legno odoroso che sparge fragranza, per dire che la fede si diffonde con il buon profumo della vita. Il cedro ci dice che la fede si trasmette con il profumo della Parola più che con le parole. Il secondo albero citato dalla fonte camaldolese è l’acacia per due caratteristiche: ha le spine ed è utile per fare delle siepi, per non diventare insignificanti. La fede è significativa se è pungente e se sa creare delle siepi che la proteggono dall'essere analizzata. È un elemento per custodire qualcosa di prezioso. La fede dei monaci e di tutti i credenti deve essere pungente e nello stesso tempo custodita».
Il terzo albero, il mirto, ha continuato Ferrari, «ha virtù sedative, è un modello di moderazione e di discrezione. Il monaco non deve apparire troppo giusto e troppo remissivo; la fede si dice in parole non prepotenti, nella mitezza.
L’ulivo è simbolo di pietà e pace. Anche questo dovrebbe caratterizzare la presenza dei credenti nel mondo, uomini e donne di pace e consolazione. L’autore della prima lettera di Pietro scrive che la speranza deve essere testimoniata con dolcezza e rispetto. È lo stile dell'ulivo che produce l’olio della consolazione, della gioia e della misericordia.
L’abete è slanciato in alto, a Camaldoli è particolarmente presente. Sono i compagni silenziosi della vita dei monaci. In questo tempo segnato dalla tentazione di guardare in terra ci invita a guardare verso il cielo e ci dice che per essere uomini e donne di fede dobbiamo guardare in alto.
L’olmo è lodato perché alto: è utile come sostegno della vite carica di frutti. Porta i pesi degli altri alberi: è l’immagine della fede di chi si fa carico dei pesi.
Il bosso non perde il suo colore, è sempre verde e vicino al terreno. È maestro di perseveranza e di pazienza, che sono caratteristiche della vita monastica e della vita cristiana. Non porta frutti ma rimane legato alla terra».
Claudio Ubaldo Cortoni ha ripercorso la biografia della foresta attraverso testi camaldolesi e scritti di personaggi passati dal Monastero. «Quando ancora non erano arrivati i camaldolesi era una foresta di faggi. Poi la foresta di abete era diventata necessaria come protezione e come incarnazione del deserto in quanto tale. Petrarca ne sottolineava la compattezza scrivendo che nessun dardo vi poteva entrare. Garantiva la solitudine, il silenzio e la sobrietà». La biografia della foresta, strettamente legata alla Comunità camaldolese, ha attraversato momenti positivi e negativi. «Abbiamo avuto tre tagli di guerra: nell’occupazione napoleonica, nella prima guerra mondiale e nella seconda guerra mondiale; quest’ultimo taglio venne fermato. La foresta ha attraversato davvero la storia del mondo e le vicende che hanno travolto questa comunità che si è trovata al centro di eventi storici».
Molti personaggi hanno fatto esperienza della foresta e ne hanno scritto. Nel XV secolo il monaco Agostino di Portico, citato come il Camaldolese, ne ha sottolineato la dimensione spirituale. «In una lettera a una monaca descrive la processione nella foresta dopo la messa di risurrezione. Uscito dalla chiesa gli sembra che ogni cosa lodi il Signore e che la natura corrisponda a quello che compiva il monaco. La foresta diventa come la proiezione del paradiso».
Giorgio Vasari, che fu invitato a soggiornare al Sacro Eremo nell’aprile del 1537, «fu aiutato dalla foresta e dal silenzio a conoscere sé stesso e le sue pazzie. I monaci lo aiutavano attraverso il loro modo di vivere. La vita naturale diventa immagine del contatto che Vasari ha avuto con i monaci». Nel 1570 il viaggiatore spagnolo Munoz descrive com’era l’eremo quarant’anni dopo la visita di Vasari e si sofferma sull’esercizio spirituale del monaco in relazione alla natura.
La foresta, ha spiegato Cortoni, era soggetta a regole precise: solo il consiglio della Comunità poteva decidere il taglio degli alberi. «Se si tagliava occorreva ripiantare. Sulla porta dell'eremo era scritta in volgare una maledizione a chi tagliava abusivamente perché chi tagliava la foresta non garantiva la sopravvivenza e il futuro della comunità. Per rigenerarla occorrono quaranta o cinquant’anni. Si piantavano tanti alberi tutti gli anni altrimenti la foresta sarebbe venuta meno, ad esempio con i tagli di guerra. Spesso chi li piantava non li vedeva crescere. Per noi sfruttare la foresta per la nostra spiritualità e per la nostra sopravvivenza significava anche salvaguardarla, che non significa lasciarla intatta ma farla crescere, pensare al suo futuro. Per mille anni questo eremo è rimasto all’interno di una foresta nonostante alcuni reperti fotografici dal 1915 al 1940 mostrino che dall’eremo si vedeva il monastero perché non c’era più una pianta. Ma la foresta è cresciuta. Prendersi cura del creato, almeno per i camaldolesi, non ha significato non toccare il creato, perché l’uomo antropizza il luogo dove vive. Il monastero e l’eremo sono un’antropizzazione della foresta, ma c’è modo e modo di abitare quando sappiamo che noi e la nostra vita spirituale dipendiamo dal luogo dove abitiamo».