Comunicato stampa n.10
Il tema della 60a Sessione di formazione ecumenica del Sae, “Una terra da abitare e da custodire”, si è avventurato anche nelle nuove declinazioni delle teologie con il panel “Ecospiritualità tra bellezza e grido” al quale sono intervenuti Elena Massimi, delle Figlie di Maria Ausiliatrice, presidente dell’Associazione professori di Liturgia, e Davide Romano, teologo e pastore, direttore della Facoltà avventista di teologia di Firenze.
Ha esordito Elena Massimi, docente di Liturgia e sacramentaria presso la Pontificia Università Auxilium, l’Università Pontificia Salesiana e l’Istituto di Liturgia pastorale Santa Giustina. «È più facile descrivere che definire l’ecospiritualità, che presenta tra i suoi elementi la centralità della figura del Dio creatore, la relazione dell’uomo con il creato e la valorizzazione della corporeità dell’uomo e del creato». La prassi del benedire nella Chiesa è importante «per cogliere un rapporto nuovo con le realtà create dove emerge una relazione d’amore tra Creatore e creature e una prospettiva di redenzione grazie al Figlio fatto uomo e glorificato».
Prendendo spunto dalla Laudato si’, la relatrice ha proposto «il contributo che la liturgia offre a una corretta relazione con il creato, e quindi a una delle dimensioni dell’ecospiritualità. Relazioni equilibrate con il prossimo, con il creato e con sé stessi richiedono una conversione integrale della persona che esige il riconoscimento degli errori e il pentimento». Papa Francesco ha introdotto il concetto di “peccato ecologico” e con l’istituzione della Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato, «ha invitato i fedeli a invocare la misericordia divina per i peccati commessi contro il mondo in cui viviamo».
Secondo la liturgista, la conversione ecologica potrebbe essere un’opportunità per riscoprire il sacramento della penitenza e la dimensione penitenziale della vita cristiana. Si è poi soffermata ad analizzare il sacramento della penitenza che chiama a una conversione che non riguarda solo il singolo, ma tutta la comunità e tutte le relazioni. «La conversione non è un atto puntuale ma un processo; possiamo parlare di virtù di penitenza. Una pratica come il digiuno non è finalizzata a sé stessa, ma a una presenza, a qualcos’altro. Istituisce la distanza corretta con sé stessi, con gli altri, con Dio e con il creato, scopre la dipendenza da Dio e chiama a donarsi ai fratelli».
La liturgia, ha continuato Massimi, non si colloca in logiche produttive, utilitaristiche, ma in un orizzonte di dono che si sostituisce allo scambio. Nell’Eucaristia riceviamo un grandissimo dono che non possiamo restituire a Dio, ma che ci può aprire ai fratelli e alle sorelle donandoci a loro, a nostra volta, nella libertà.
«Nella materialità e corporeità della liturgia, e quindi nel nostro corpo, avviene il dono di Dio in Cristo, dono che può essere accolto nel nostro corpo e donato ad altri attraverso il corpo stesso».
Citando il teologo Ghislain Lafont, la liturgista ha messo in luce il significato profondo dell’invito alla cena di Gesù. Invitare a un pasto significa offrire la vita, si dona infatti del cibo, elemento necessario per poter vivere. «Colui che invita rischia la propria vita offrendo una parte di ciò che ha e la sua intenzione diventa ancora più chiara: si vuole creare una relazione. E proprio l’invito mette in luce il primato del dono nella liturgia; nel dono si esprime e realizza una reciprocità libera».
Un altro aspetto della liturgia è l’assunzione del corpo e del creato. La spiritualità cristiana non disprezza la materialità anzi la assume, come ha spiegato la relatrice: «Nella liturgia si prega con il corpo e attraverso gli elementi corporei. La liturgia stabilisce una relazione imprescindibile con il creato. Pensiamo al ciclo del tempo, le stagioni, i giorni, le settimane, o anche alla valorizzazione degli elementi naturali, a tutte le benedizioni presenti nel benedizionale. Tutto ciò è strettamente connesso con la valorizzazione della corporeità nella liturgia».
Le realtà naturali – l’acqua, l’olio, il fuoco, la luce, il pane e il vino – «sono assunte in un contesto rituale: le azioni del bagnare e dell’essere bagnati, dell’ungere ed essere unti, del bruciare e dell’illuminare, del mangiare e del bere che il credente celebrante compie o riceve. La natura entra nel gioco simbolico della liturgia, in particolare dei sacramenti; grazie all’agire rituale diviene simbolo, e quindi apertura al mistero. Non sono semplicemente cose sacre, ma azioni sante compiute da uomini con elementi creaturali, eppure capaci di dire l’oltre e l’altrove della fede».
Nella sua relazione, intitolata “Fino a quando o Signore? Il grido delle creature, tra sgomento e speranza”, dopo una premessa sulla natura e i limiti di quel discorso che dice l’alterità di Dio rispetto alla creazione, Davide Romano ha affermato: «Possiamo parlare di una ecospiritualità perché il sogno di Dio è abitare in mezzo alle sue creature. L’incarnazione è il modello di immedesimazione con il terreno, con l’umano e con il creaturale». Per il teologo non è possibile rinunciare a ogni forma di antropocentrismo ma «possiamo e dobbiamo essere interpreti di un antropocentrismo critico, culturalmente consapevole della propria parzialità. L’essere umano non è solo, e non è bene che creda di salvarsi da solo. È necessario creare e riscoprire una grammatica della solidarietà tra le creature, in un mondo in cui il peccato mette comunque le creature in una tensione competitiva tra di loro».
Anche di fronte ai danni e alle ferite inferte al creato dall’umanità, Romano afferma che non tutto dipende da noi. La fede nel Dio creatore è un antidoto a ogni pessimismo e idolatria. «Che Dio non possa intervenire chi l’ha detto? Nel Salmo 104 e 93 si afferma che la creazione è presa in cura da Dio. Dio è costantemente addetto alla protezione, questo non funge da alibi per non militare sul versante dell’impegno ecologico, ma mi offre una speranza, mi dice che la salvezza non è solo il sogno mio, delle Chiese, del Sae, dei Verdi, ma è il sogno di Dio, e se aspettiamo nuovi cieli e nuova terra non è perché quelli attuali devono andare in macerie, ma c’è una trasfigurazione di Dio che ogni cosa recupera. Credo che questo lavorare e custodire il creato sia un mandato affidato a noi, ma al tempo stesso è un mandato che svolgiamo nella consapevolezza che l’intelligenza, la dedizione e la l’amore per il creato non sono un cruccio solo nostro, ma un preciso impegno che Dio ha assunto con la sua creazione». Romano ha l’impressione, a volte, che dietro a un’eccessiva chiamata a salvare il mondo si celi potenzialmente un’altra forma di antropocentrismo. «Se pensi che sarai tu creatura a salvare il mondo, hai scollegato la tua fede da una reale centralità di Dio. L’apocalittico è colui che vede l’ambiguità delle realtà create, è colui che attende, prega e resiste sapendo che Dio è colui che era, che è, che viene e che ritorna. L’apocalittico sa che in questo mondo ci sono delle lotte, dei poteri; siamo al centro di uno scontro e questa dimensione non può non informare anche i nostri slanci utopici che rischiano di fallire perché non vedono la realtà del conflitto. Credo che l’impegno per un reincanto del mondo, come a volte sembra di scorgere in alcune ecoteologie, è un progetto ambizioso e legittimo, però rimango tiepido. Per contro non mi rassegno neanche alla bellezza del drammatico.
Consapevoli della brutalità che c’è nella natura dobbiamo impegnarci con spirito di preghiera affinché la creazione e noi creature impariamo il linguaggio della solidarietà, e non posso non celebrare questo spirito della creazione con un modello che mi ha molto entusiasmato, Adriana Zarri. Una teologa che prima di altri ha detto delle cose importantissime anche in ordine al nostro tema, ad esempio la sua teologia degli animali».
Il primo pensiero estratto dal teologo dagli scritti della Zarri dice: «Se la fondamentale categoria dell’alleanza ingloba il mondo animale, ciò significa che le bestie entrano a pieno diritto nella storia della salvezza, vengono assunte dal Cristo, e unite alla sua risurrezione dimoreranno sotto i cieli nuovi e la terra nuova, dove abiterà la giustizia». Il secondo, sempre della teologa, è una preghiera: «Scrostaci, o Dio, la triste polvere dell’inquietudine, della stanchezza, del disincanto. Dacci la gioia di svegliarci ogni mattina con gli occhi stupiti per vedere gli inediti colori di quel mattino, unico e diverso da ogni altro, con mani nuove per toccare le cose e riceverne quasi l’impronta sulla carne, con curiosità perenne e stupore incontaminato».