Comunicato stampa n.12
Parlare a partire da sé. In quest’ottica si è posto il pastore valdese Gabriele Bertin nel presentare alla sessione di formazione ecumenica del Sae il suo contributo intitolato “Per un’etica liberante”. «Chi vi parla è Gabriele, che non è solo un pastore. Credo sia importante, quando si parla dell’ambito etico, riconoscere la pluralità dei fasci che costituiscono l’identità di una persona. Questo l’ho imparato nei gruppi collettivi dentro e fuori le chiese. Ciò che dirò viene dal mio vissuto di persona socializzata al maschile, relativamente giovane, omosessuale, bianco, con un livello di cultura buono avendo avuto la possibilità di studiare fino alla laurea specialistica, economicamente stabile e inserito in un corpo conforme, cioè senza disabilità fisiche. Se l’etica è un ambito che tocca le relazioni, credo sia importante riconoscere che ogni persona con il suo portato viene toccata in maniera differente. La seconda parola del titolo – liberante – indica un processo, un qualcosa che nel compiersi porta a un obiettivo ma è qualcosa in divenire».
Nel pensare al contributo che gli è stato chiesto, Bertin ha ripreso dai suoi quaderni accademici due testi biblici del Nuovo Testamento che gli sono stati presentati come il fondamento dell’etica delle prime comunità cristiane. Uno è il noto testo della regola d’oro contenuta nel Vangelo di Matteo e nel Vangelo di Luca: “Come volete che gli uomini facciano a voi, così fate anche a loro”. «Luca – ha spiegato Bertin - crea un legame tra l’altro e me stesso, dove io divento il polo che determina in che modo mi devo rapportare con l’altro. Crea un’intersoggettualità unita dal principio dall’imitazione di Dio. L’altra persona non è qualcosa che mi impedisce di vivere la libertà, ma diventa la costruzione della mia libertà in relazione. Questo testo sembrerebbe dire che viviamo nel contraccambio, nella reciprocità, però Gesù chiede di andare oltre per entrare nell’ottica del dono. Chiede di amare anche quelle persone che non mi restituiranno quello che io do loro, che sono fuori dalla mia cerchia. Perché chiede di cambiare il modo in cui intessiamo le nostre relazioni. In un certo senso crea una specie di gigantesca categoria nella quale ci inseriamo tutti e tutte: l’altro, l’altra. Dobbiamo amare le persone andando oltre le etichette; non c’è più il nemico, ma una persona verso la quale praticare quell’amore e quell’accoglienza che io ho sperimentato a mia volta in Dio attraverso Gesù Cristo».
A questo punto nel relatore sorge la domanda: «“In questa grande categoria che fine fanno le nostre differenze?”. Il testo di Gal 3,27-28, molto importante per le prime teologie nel mondo gay e lesbico degli anni ’80, ci dice che le differenze sono attraversate dall’esperienza dell’amore di Dio che si sperimenta in Gesù Cristo. In Gesù queste differenze si scoprono “uno”. Con questo testo Paolo chiede anche che nelle comunità non vi sia lo sguardo limitante e giudicante della società di allora. L’unità che Cristo dona non è nonostante le differenze ma perché si è differenti. Ciò ci aiuta a vivere le relazioni cercando di stare insieme, di capire il nostro punto di incontro, non solo nelle chiese ma anche fuori, nel mondo. La differenza è costitutiva della nostra realtà, e nella prospettiva di un’etica che libera non significa che debba cancellare ciò che rende una persona ciò che è. La normalità è definita dalla maggioranza, ciò permette di rivedere, escludere o correggere la minoranza. Davanti a Dio la liberazione permette di non essere ridotto o ridotta a una parte della propria identità, ma di vivere liberamente e sotto un’ottica che libera dalla repressione e dall’emarginazione. Significa divenire parte del tutto, nella personale esperienza di creatura liberata».
In conclusione, Bertin ha ribadito che «la complessità può essere compresa solo attraverso un approccio intersezionale, anche nello sviluppo della riflessione teologica ed etica, che riconosca la diversità di intrecci, di privilegi, di possibilità e di necessità e prenda coscienza e agisca contro le differenti forme di oppressione che si aggrovigliano nel nostro vivere quotidiano. L’etica liberante si pone come fine ultimo, quindi, la libertà vissuta come responsabilità esercitata nel rispetto, nel confine che vivo con l’altro e l’altra e per l’altro e l’altra. La libertà necessita sempre di essere riletta, allargata, esercitata non come privilegio ma come diritto, e quest’ultimo non lo diventa se non è per tutti e tutte. Un’etica liberante ci inserisce in un processo continuo, perché dobbiamo imparare ancora una volta a vivere ed esercitare la necessità e la bellezza della collettività diversificata e non dell’omologazione. Vorrei concludere con questa frase: “O siamo liberi e libere assieme, o rimarremo sempre schiavi e schiave assieme”».