La visita di papa Francesco alla sinagoga di Roma, la terza di un pontefice romano, è stata segnata dai tratti della cordialità e dell’amicizia. Bergoglio prima di entrare ha deposto un grande cesto di fiori bianchi sotto la lapide che ricorda la deportazione degli ebrei romani nel 1943. Quindi ha percorso a piedi via Catalana e ha ripetuto l’omaggio davanti alla lapide in ricordo di Stefano Gaj Taché, il bambino ucciso nell’attentato terroristico del 1982, intrattenendosi con i suoi familiari.
Una volta entrato, per quasi mezz’ora, senza alcuna fretta, Francesco ha percorso in lungo e in largo il Tempio, stringendo mani e abbracciando i presenti.
Il rabbino capo Riccardo Di Segni all’inizio del suo discorso di benvenuto ha detto: «Oggi il Tempio accoglie con gratitudine questa terza visita di un papa e vescovo di Roma. Secondo la tradizione giuridica rabbinica, un atto ripetuto tre volte diventa chazaqah, consuetudine fissa. È decisamente il segno concreto di una nuova era dopo tutto quanto è successo nel passato. La svolta sancita dal Concilio Vaticano cinquanta anni fa è stata confermata da numerosi e fondamentali atti e dichiarazioni, l’ultima di un mese fa, che hanno prima aperto e poi consolidato un percorso di conoscenza, di rispetto reciproco e di collaborazioni.»
Nelle conclusioni Di Segni ha individuato due segnali da mettere in evidenza: «.Il primo è quello della continuità. Il terzo papa a visitare la nostra Sinagoga conferma la validità e l’intenzione del gesto del primo papa che voleva significare la rottura con un passato di disprezzo nei confronti dell’ebraismo; l’intuizione di Giovanni Paolo II fu quella di tradurre in gesti concreti e messaggi essenziali e comprensibili a tutti le difficili elaborazioni dottrinali del Concilio. La sua visita alla Sinagoga ebbe questo ruolo e a sua volta aprì la strada per il riconoscimento dello Stato d’Israele. Il papa successivo, Benedetto, ha voluto confermare questa linea; ora la scelta di Francesco stabilisce una consuetudine. Interpretiamo tutto questo nel senso che la Chiesa Cattolica non intende tornare indietro nel percorso di riconciliazione.»
Prima di lui avevano parlato la presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello e Renzo Gattegna, presidente delle Comunità ebraiche d’Italia.
Ruth Dureghello ha sottolineato la necessità di un impegno comune « per contribuire alla crescita morale e civile della società. Mi sento di poter dire che ebrei e cattolici, a partire da Roma, debbono sforzarsi di trovare assieme soluzioni condivise per combattere i mali del nostro tempo».
Di fronte ai crimini compiuti negli ultimi tempi ha detto: «Non possiamo essere spettatori. Non possiamo restare indifferenti. Non possiamo cadere negli stessi errori del passato, fatti di silenzi assordanti e teste voltate. Uomini e donne che rimasero immobili davanti a vagoni stipati di ebrei spediti nei forni crematori. Eccoli, oggi in prima fila i nostri sopravvissuti alla tragedia della Shoah a ricordarci che la Memoria non è un esercizio di autoconsolazione per riparare agli orrori commessi. La Memoria del più grande genocidio della Storia dell’Uomo la teniamo viva affinché nulla di simile possa ripetersi. Questo il nostro impegno più grande per il futuro e per le nuove generazioni. Con questa visita ebrei e cattolici lanciano oggi un messaggio nuovo rispetto alle tragedie che hanno riempito le cronache degli ultimi mesi. La fede non genera odio, la fede non sparge sangue, la fede richiama al dialogo. Una convivenza ispirata all’accoglienza, alla pace e alla libertà in cui si impari a rispettare, ciascuno con la propria identità, l’altro».
Renzo Gattegna, sottolineando l’importanza di gesti simbolici e prendendo atto che un grande cammino è stato fatto nei rapporti cattolici ed ebrei dal momento di svolta costituito dal decreto conciliare Nostra Aetate, ha espresso l’augurio che la svolta avvenuta nella comprensione reciproca e l’impegno a ricomprendere il rapporto reciproco possano essere recepiti da tutti e non rimanere chiusi in circoli ristetti.
Papa Francesco ha individuato alcune motivazioni teologiche del dialogo ebraico-cristiano.
«Nel dialogo ebraico-cristiano – ha detto - c’è un legame unico e peculiare, in virtù delle radici ebraiche del cristianesimo: ebrei e cristiani devono dunque sentirsi fratelli, uniti dallo stesso Dio e da un ricco patrimonio spirituale comune (cfr Dich. Nostra aetate, 4), sul quale basarsi e continuare a costruire il futuro […].
Il Concilio, con la Dichiarazione Nostra aetate, ha tracciato la via: “sì” alla riscoperta delle radici ebraiche del cristianesimo; “no” ad ogni forma di antisemitismo, e condanna di ogni ingiuria, discriminazione e persecuzione che ne derivano. Nostra aetate ha definito teologicamente per la prima volta, in maniera esplicita, le relazioni della Chiesa cattolica con l’ebraismo. Essa naturalmente non ha risolto tutte le questioni teologiche che ci riguardano, ma vi ha fatto riferimento in maniera incoraggiante, fornendo un importantissimo stimolo per ulteriori, necessarie riflessioni. A questo proposito, il 10 dicembre 2015, la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo ha pubblicato un nuovo documento, che affronta le questioni teologiche emerse negli ultimi decenni trascorsi dalla promulgazione di Nostra aetate. Infatti, la dimensione teologica del dialogo ebraico-cattolico merita di essere sempre più approfondita, e desidero incoraggiare tutti coloro che sono impegnati in questo dialogo a continuare in tal senso, con discernimento e perseveranza. Proprio da un punto di vista teologico, appare chiaramente l’inscindibile legame che unisce cristiani ed ebrei. I cristiani, per comprendere sé stessi, non possono non fare riferimento alle radici ebraiche, e la Chiesa, pur professando la salvezza attraverso la fede in Cristo, riconosce l’irrevocabilità dell’Antica Alleanza e l’amore costante e fedele di Dio per Israele»
Dopo aver ricordato i deportati di Roma del 16 ottobre 1943 e salutato i sopravvissuti alla Shoah presenti all’incontro con l’invito a non dimenticare che la memoria è monito per l’impegno nel nostro presente, ha concluso:
«Cari fratelli maggiori, dobbiamo davvero essere grati per tutto ciò che è stato possibile realizzare negli ultimi cinquant’anni, perché tra noi sono cresciute e si sono approfondite la comprensione reciproca, la mutua fiducia e l’amicizia. Preghiamo insieme il Signore, affinché conduca il nostro cammino verso un futuro buono, migliore. Dio ha per noi progetti di salvezza, come dice il profeta Geremia: «Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore –, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11). Che il Signore ci benedica e ci protegga. Faccia splendere il suo volto su di noi e ci doni la sua grazia. Rivolga su di noi il suo volto e ci conceda la pace (cfr Nm 6,24-26). Shalom alechem»
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