17 dicembre
«Abbiamo il diritto di sperare!». Così si è espresso il segretario generale del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC) Olav Fykse Tveit ricevendo il documento finale dell’accordo Cop21 di Parigi.
La nostra speranza è infatti sempre incarnata nella storia, negli sforzi che l’umanità, piccola o grande, compie per rendere la vita degna di grazia. In questo caso è una speranza che si basa sulla firma di ben 195 nazioni, anche se tale firma non è vincolante. Questa grande adesione, molto più alta rispetto agli accordi precedenti, indica il valore di urgenza che i cambiamenti climatici assumono nelle agende politiche del mondo. Eppure il fatto che l’accordo non sia vincolante indica subito anche la difficoltà dei governi raccolti a Parigi per mettere in pratica quanto concordato. La speranza dunque è contrastata.
Già emergono le critiche: nell’accordo prevalgono rinvio e dilazione degli impegni, sono pochi gli elementi di controllo, non vi è nessun accenno a quanto richiesto anche dalle chiese del mondo rispetto al disinvestimento nelle risorse fossili. Inoltre non si prendono in considerazione la riconversione dell’agricoltura, affinché diventi parte della soluzione e non produttrice di Co2, né la politica dei trasporti transoceanici che appesantiscono enormemente il peso ambientale di qualunque merce. Appare tuttavia importante l’appoggio dato con un intenso sforzo finanziario ai paesi del Sud per un loro sviluppo anche industriale più sostenibile.
Va dunque valorizzata la volontà della Cop21 di impegnarsi per una trasformazione dei nostri modi di produzione e di vita. Va sostenuta la volontà delle chiese e di ogni comunità di qualunque fede o convinzione nel mondo per ridurre le emissioni che distruggono la biosfera, così fragile, così potente da permetterci di esistere. La speranza richiede l’azione dal basso, ed è un ottimo segno che il tema sia arrivato (seppure con tanto ritardo) a livello delle coscienze e del lavoro internazionale.
La speranza ha bisogno delle nostre azioni concrete. Viene in primo piano un elemento forse accantonato con distrazione nella riflessione teologica: cioè che il nostro lavoro, materiale e spirituale, contribuisce all’opera di creazione di Dio nel mondo, anzi ne è parte pienamente, quando è guidata dallo Spirito che agisce anche tramite il discernimento e la capacità di memoria critica. Memoria della distruzione del fragile equilibrio climatico a causa di una economia di avidità centrata solo sul benessere del giorno presente, che non ha alcuna prospettiva di futuro. E lavoro come collaborazione alla creazione di Dio. Ecco che anche la nostra etica protestante del lavoro può essere sganciata dal classico riferimento al capitalismo e alla tecnologia che ci hanno spinti verso la critica situazione ambientale in cui viviamo. Quella stessa etica può invece tornare ad essere la guida verso una costruzione del mondo in armonia con il mondo stesso, un’armonia che come credenti affermiamo mantenuta da Dio stesso.
Infatti si tratta ora di lavorare con lo stesso impegno con cui le chiese e le religioni hanno portato avanti le ragioni dei viventi e della giustizia climatica in vista della Conferenza di Parigi. Di lavorare ancora per ridurre i consumi e convertire le fonti di energia. Di impegnarci anche sul piano della riflessione etica e teologica per comprendere che questo pianeta è il dono più grande, un pianeta dove anche Gesù è nato, ed è stato il contesto vitale dell’annuncio dell’evangelo.
Il modo in cui le chiese e le religioni, come anche i movimenti ambientalisti, hanno salutato l’accordo, parla di un cammino in salita e ancora lungo, per arrivare a una conversione degli stili di vita. E tuttavia, ecco la novità: la vita sul pianeta è al centro dell’attenzione politica, e si è concordato che l’equilibrio di giustizia nel mondo dipende anche dal modo in cui produciamo, facciamo commercio, comunichiamo. Acquista visibilità l’ingiustizia ambientale e diventa importante un tema come la sicurezza alimentare, basata anche su una agricoltura sostenibile.
L’impegno per accrescere la lotta alla miseria e allo sfruttamento nel mondo vanno di pari passo con la riduzione dell’uso di propellenti fossili. Bruciare ancora questi prodotti al livello attuale significa continuare a bruciare vite umane e animali, dignità del vivente, biosfera. La speranza passa da qui, dalla capacità di consumare meno, di trasformare quella che nel protocollo di Parigi appare come una somma di promesse in uni impegno vincolante che ci faccia uscire da questo appiattimento sul presente che stiamo vivendo nei paesi più ricchi.
Riforma.it (articolo di Letizia Tommasone)