«Questo è un viaggio verso l’unità». Così papa Francesco mentre partiva ha definito il pellegrinaggio ecumenico del 21 giugno, recandosi in visita al Consiglio ecumenico delle Chiese a Ginevra su invito del segretario generale del CEC Olav Fykse Tveit e della moderatrice del Comitato centrale Agnes Abuom, in occasione del 70° anniversario della sua fondazione, avvenuta ad Amsterdam il 23 agosto 1948.
Un’unione fraterna
Il CEC, come noto, si definisce un’unione fraterna (fellowship) di Chiese ed è costituito oggi da 348 membri di tradizione prevalentemente protestante, anglicana e ortodossa, per un totale di circa 560 milioni di fedeli. La Chiesa cattolica partecipa come osservatrice, mentre è membro a pieno titolo della commissione teologica Fede e costituzione e della Commissione missione mondiale ed evangelizzazione (CWME).
Dal 1965 poi si riunisce annualmente presso l’Istituto ecumenico di Bossey il Gruppo di lavoro congiunto tra il CEC e la Chiesa cattolica romana, che ha prodotto nel frattempo nove relazioni e numerosi documenti su importanti questioni ecumeniche. Nel mandato attuale sta riflettendo sulla costruzione della pace e sulla cura degli emigranti e dei rifugiati da parte delle Chiese. Il Gruppo di lavoro ha promosso varie forme di collaborazione: il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani ha inviato degli osservatori alle riunioni e alle assemblee del Comitato centrale del CEC; un professore di teologia biblica insegna a Bossey ed è attualmente decano dell’Istituto; il Pontificio consiglio e il CEC preparano la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani insieme ai partner locali; sono state organizzate visite tra i vari Pontifici consigli della curia romana e il CEC. Il Comitato comune Società, sviluppo e pace (Sodepax) è invece stato soppresso nel 1980.
Il pellegrinaggio di Francesco aveva come motto «Camminando, pregando e lavorando insieme», e si è idealmente inserito nel solco del «Pellegrinaggio di giustizia e pace» che l’organismo ecumenico mondiale ha avviato come programma settennale a partire dall’Assemblea di Busan nel 2013. La giornata si è svolta intorno a tre momenti centrali: una preghiera ecumenica, un incontro presso il Centro ecumenico e la messa conclusiva presso il Palaexpo.
L’accento sull’azione e la missione
Una «preghiera di pentimento», una «preghiera per la riconciliazione e l’unità», la lettura e la meditazione delle Scritture, la confessione della fede e la preghiera comune del Padre nostro sono i momenti che hanno caratterizzato la preghiera ecumenica che si è celebrata al mattino, con la partecipazione di 14 rappresentanti di confessioni cristiane oltre al papa.
Nella sua omelia Francesco ha affermato – come numerose altre volte – che «il movimento ecumenico, al quale il Consiglio ecumenico delle Chiese ha tanto contribuito, è sorto per grazia dello Spirito Santo». E ha criticato le resistenze che l’ecumenismo incontra all’interno di ciascuna confessione, «perché non si tutelano a dovere gli interessi delle proprie comunità, spesso saldamente legati ad appartenenze etniche o a orientamenti consolidati». Esortando il movimento a non stancarsi e arrestarsi davanti alle divergenze che persistono, «logorato di pessimismo»: «Le distanze non siano scuse, è possibile già ora camminare secondo lo Spirito: pregare, evangelizzare, servire insieme, questo è possibile e gradito a Dio!».
Nell’incontro ecumenico, di cui è possibile leggere qui gli interventi, è apparsa evidente la sintonia che esiste tra gli attuali leader della Chiesa cattolica e del CEC nella sottolineatura prevalente della feconda collaborazione nell’azione e nella missione, rispetto al binario del dialogo teologico, che appare avanzare più lentamente ed essere il luogo dove permangono le «divergenze» e le «distanze» segnalate da Francesco. D’altra parte i 70 anni di storia del CEC attestano come sia anche merito di un paziente e tenace dialogo sulle questioni teologiche se le diverse confessioni cristiane sono passate dai conflitti alla riconciliazione, e dagli anatemi a un rapporto fraterno che consente loro di collaborare nell’evangelizzazione e nella promozione umana.
Il segretario Tveit ha detto a Francesco che «la sua leadership è un segno forte di come possiamo trovare espressioni di questa unità nella diakonia e nella missione», riconoscendo implicitamente al vescovo di Roma una leadership ecumenica. Mentre il papa nel suo discorso si è richiamato al DNA missionario del movimento ecumenico, affermando: «Come alle origini l’annuncio segnò la primavera della Chiesa, così l’evangelizzazione segnerà la fioritura di una nuova primavera ecumenica». Anche perché la divisione dei cristiani è la principale contro-testimonianza all’annuncio del Vangelo, che rimane l’istanza centrale del pontificato: «Permettetemi, cari fratelli e sorelle, di manifestarvi, oltre al vivo ringraziamento per l’impegno che profondete per l’unità, anche una preoccupazione. Essa deriva dall’impressione che ecumenismo e missione non siano più così strettamente legati come in origine. Eppure il mandato missionario, che è più della diakonia e della promozione dello sviluppo umano, non può essere dimenticato né svuotato. Ne va della nostra identità. L’annuncio del Vangelo fino agli estremi confini è connaturato al nostro essere cristiani».
E Agnes Abuom, la prima donna e la prima africana (Kenya) a ricoprire la carica di moderatrice del Consiglio ecumenico delle Chiese, ha rimarcato tutte le azioni congiunte che oggi la Chiesa cattolica e il CEC sono in grado di svolgere a favore della solidarietà, della giustizia e della pace.
Strade parallele?
«La Chiesa cattolica romana e il Consiglio ecumenico delle Chiese percorrono strade parallele», ha detto proprio Agnes Abuom nel messaggio di benvenuto all’inizio della preghiera ecumenica. L’osservazione è significativa, perché questa è stata la prima visita di un papa al CEC che non abbia toccato la questione della partecipazione piena della Chiesa cattolica all’organismo ecumenico.
Paolo VI in occasione della sua visita a Ginevra nel 1969 aveva rilevato come i tempi per un ingresso non fossero «ancora maturi», perché si rendevano necessarie delle «ricerche approfondite». E la causa dell’impossibilità era da lui stesso individuata nel ministero petrino, ritenuto garante dell’unità: «Il ministero petrino, creato per l’unità delle Chiese, è diventato il più grande ostacolo alla stessa».
E Giovanni Paolo II nel 1984 in occasione analoga ribadiva: «Nonostante le miserie morali che nel corso della storia hanno contraddistinto la vita dei suoi membri e persino quella dei suoi responsabili, [la Chiesa cattolica] è convinta di aver conservato nel ministero del vescovo di Roma, in piena fedeltà alla tradizione apostolica e alla fede dei papi, il polo visibile dell’unità e la garanzia di questa».
Che oggi sia implicitamente recepito che il CEC e la Chiesa cattolica percorrono «strade parallele» è coerente con il modello della diversità riconciliata, da Francesco richiamata spesso nell’immagine dell’«ecumenismo del poliedro». Rimane tuttavia vero che la questione del ministero petrino, sotto il tema più generale dell’autorità nella Chiesa, è ancora un «ostacolo», come ammetteva Paolo VI, nella via verso l’unità.
Daniela Sala