“La vocazione non si lascia impacchettare confessionalmente - ha esordito Genre -, ci sono invece variabili riconducibili ad una stessa ed unica sorgente.
C’è una universalità della vocazione a tutti/e, vocazione generale, e ci sono le vocazioni particolari che si intrecciano con ogni biografia”.
Vocazione per tutto il Medio Evo è parola che concerne unicamente il clero, chi non ne fa parte non può accedere allo “stato di perfezione”.
Con Lutero la parola vocazione è associata alla professione di ogni cristiano e non più legata alle mansioni dei religiosi, essa va vissuta responsabilmente nel mondo di ogni giorno: la mondanità è presente anche nei conventi.
Questa riscoperta della vocazione per tutti i cristiani è ripresa da Calvino una generazione dopo Lutero e in un contesto diverso: ormai lo status vocazionale è aperto a tutte le professioni e, dopo di lui, i puritani inglesi riproporranno dei veri e propri trattati sulle vocazioni.
Calvino sottolinea, fra le altre cose, l’esigenza di riconoscere il limite insito in ogni vocazione cristiana che deve prendere le distanze dall’onnipotenza che sempre si annida nell’animo umano.
Il cristiano è chiamato a vivere la propria vocazione nella consapevolezza che il suo cammino è sostenuto dall’opera rinnovatrice dello Spirito santo che controbilancia i suoi desideri carnali.
La relazione vocazione-lavoro, fortemente sottolineata nell’epoca della Riforma, è oggi, nella postmnodernità , in crisi profonda.
La precarietà del lavoro, soprattutto per le nuove generazioni, viene a mettere in questione l’ispirazione protestante in relazione alla vocazione del cristiano e ad interrogare la cultura moderna e le chiese.
Paradossalmente, sembra che oggi soltanto i religiosi possano ancora avere la certezza di mantenere questo legame vocazione-lavoro e che, sempre più, per le nuove generazioni, la dimensione della vocazione sia completamente slegata dalla loro attività lavorativa precaria.
Come assumere questa sfida?
La riflessione su questo nodo fondamentale è appena agli inizi.