Alla tavola rotonda su L’annuncio tra Evangelo e laicità giovedì 1 agosto sono intervenuti Dora Bognandi, avventista, direttrice del Dipartimento libertà religiosa (Roma), Chiara Zamboni, filosofa (Verona), e Brunetto Salvarani, cattolico, direttore di CEM-Mondialità (Carpi), moderati da Peter Ciaccio. La grande crisi di valori che si evidenzia nella società contemporanea – ha detto Dora Bognandi - interroga i cristiani circa l’uso del Vangelo che hanno fatto e la qualità della loro testimonianza. È necessario restituire al testo sacro la sua forza vitale evitando banalizzazioni e fraintendimenti, rivedendo la sostanza della propria fede e la sua autenticità. Innanzitutto, bisogna fare una distinzione fra l’autore del messaggio, che è lo Spirito Santo, e il testimonial, l’araldo che, per avere credibilità, deve manifestare di aver avuto un altro incontro, quello con Gesù che converte, convince, fa scoprire nuovi orizzonti e cambia l’esistenza. Tra evangelizzazione e promozione umana ci sono legami profondi, infatti, grandi progressi ha portato nella società la diffusione del Vangelo nel campo dell’istruzione, dei diritti umani, della libertà religiosa, del welfare, della democrazia, della musica, dell’arte, ecc. Il messaggio è tanto più efficace quanto più cerchiamo di capire la mentalità, i sentimenti, lo stile di vita di coloro nella cui lingua l’annuncio cristiano deve essere tradotto, ma anche il tempo in cui viviamo. Purtroppo oggi il compito non è facilitato a causa di una società sempre più complessa e diversificata. Ma le difficoltà non debbono spingerci a negligere il kerygma, anzi ci offrono nuove opportunità. La vita nasce dalla diversità e anche la fede si arricchisce con la diversità. Dio ama la varietà, il pluralismo è una realtà che corrisponde perfettamente alla volontà di Dio e con esso dobbiamo imparare a convivere in pace. Ciò non significa cadere nell’indifferentismo o nel sincretismo, ma acquisire una mentalità laica che ci porta ad avere rispetto per la sensibilità e il percorso di vita altrui, proprio perché riconosciamo in ogni essere umano l’immagine di Dio, anche quando fa un percorso differente dal nostro. Dimostreremo l’interesse, l’attenzione e il rispetto degli altri avendo il loro bene come obiettivo e pregando per loro, perché la preghiera ci rende sensibili, ci fa avvicinare agli altri, ci rende disponibili. Chiara Zamboni ha articolato il suo discorso in tre parti. La relatrice anzitutto ha espresso perplessità sulle definizioni comuni di laicità, “come libertà che non obbedisce a nessuna autorità” (Abbagnano), riconoscendo legami con radici storiche e culturali. La prima riguarda la differenza tra una posizione laica e una religiosa nella lettura dei vangeli. Ha proposto la poesia di Emily Dickinson, Tempo vivo (Poesia 26 del 1858): È tutto ciò che ho da offrire oggi - Questo, e il mio cuore accanto - Questo, e il mio cuore, e tutti i campi - E tutti gli ampi prati - Accertati di contare - dovessi dimenticare - Qualcuno la somma potrà dire - Questo, e il mio cuore, e tutte le Api Che nel Trifoglio dimorano. L’ha quindi accostata ad alcune “figure del regno dei cieli” presenti nel vangelo di Matteo, come il granello di senape, lievito, uccelli del cielo e gigli del campo. Il “questo [this]” della poesia richiama una “eccedenza non nominabile, mistero”, il fulcro attorno a cui riesce a portare qualcosa agli altri e un’eccedenza che da valore a ciò che porta alla festa e può trasformare tutta la comunità. “E’ un niente di ontologico, ma è ciò che permette di contare a tutto quello che lei porta”. This è il vivo, il vivente, la fonte del desiderio. Pur nella grande diversità dei contesti, c’è un rimando tra poesia e vangelo rispetto alla possibilità di una trasformazione nell’infinito. Occorre abitare la differenza, coltivarla e approfondirla. Nella seconda parte ha sottolineato il suo debito, contratto nei confronti di pratiche della tradizione cristiana, ad esempio la ruminatio delle Lectio divina come modalità di “incorporazione”, ascolto amoroso dei testi, più che di interrogazione razionale. Nella terza la Relatrice si sofferma sul rapporto delle donne con “il divino incarnato”, in quanto ritenuto utile in questo tempo di crisi/trasformazione. Nei vangeli – a differenza dei discepoli – le donne paiono più inclini al “sentire qui e ora” e ad agire subito per trasformare. Ha quindi richiamato la figura di Maria nei due episodi narrati da Luca: alla nascita di Gesù e al suo dialogo con i dottori nel tempio. Maria, nell’immagine iconografica in cui è avvolta dal mantello da cui è avvolta – forma di raccoglimento del corpo – accoglie e custodisce la Parola. La Chiesa è annuncio. Senza di esso la Chiesa perde di sapore e di senso. Ma… quale annuncio? Così Brunetto Salvarani ha introdotto il suo intervento. E ha ricordato le parole di Francesco d’Assisi al Capitolo delle stuoie (1219, dalla Leggenda perugina, n.114) : “Fratelli, fratelli miei, Dio mi ha chiamato a camminare la via della semplicità e me l’ha mostrata. Non voglio che mi nominiate altre regole, né quella di Agostino, né quella di san Bernardo o di san Benedetto. Il Signore mi ha rivelato essere suo volere che io fossi un pazzo nel mondo: questa è la scienza alla quale Dio vuole che ci dedichiamo”. Tre i punti toccati, secondo la logica del vedere, giudicare, agire. 1) Annunciare l’avvento del regno di Dio nel tempo di un emergente paradigma ecumenico (D. Bosch): la liberazione, l’inculturazione, il racconto, il dialogo ecumenico e interreligioso. Occorre fare tutto ciò che è possibile a partire dal basso. Un piccolo esempio è l’esperienza dodecennale della giornata nazionale del dialogo cristiano-islamico. 2) Annunciare un cristianesimo capace di stile (C. Theobald): “Ciò che Gesù fa e dice in tutti i suoi incontri è un tutt’uno con il suo essere, in lui ci sono un’assoluta unità e trasparenza di pensiero, parola e azione che sono manifestazione del Padre; dal suo stile emerge la provocazione di un cristianesimo che apprende, mentre le patologie e le infedeltà al vangelo che pervadono ogni epoca della storia ecclesiale – compresa la nostra, posta alla fine del regime di cristianità – possono essere lette come rottura della corrispondenza tra forma e contenuto”. 3) Annunciare il Vangelo sulle orme dell’exemplum di Francesco d’Assisi: la povertà, la minorità, la fraternità, l’obbedienza, il senso dell’allegria e il silenzio di Dio, in una prospettiva di assoluta laicità. E con un senso di estrema umanità, sul cono di luce offerto dalle ultime scelte del Santo, quali la richiesta della lettura del salmo 141 e del canto del Cantico di Frate Sole, e l’invio della lettera a Frate Jacopa, nobile amica romana, di affrettarsi per trovarlo vivo e portare, insieme al lenzuolo funebre i suoi dolcetti preferiti. Su Regno di Dio e prassi storica nella mattinata di venerdì 2 agosto nella riflessione a due voci si sono confrontati Carlo Molari, teologo cattolico (Cesena) e il pastore evangelico-luterano Ulrich Eckert (Milano). I due relatori si sono alternati negli interventi secondo le tappe storiche della riflessione. La formula Regno di Dio o Regno dei cieli è stata utilizzata certamente da Gesù, come appare dalla frequenza con cui è presente nei Vangeli. Non si trova - ha notato Molari - nella Bibbia Ebraica e non è frequente neppure negli altri scritti neotestamentari, ma è utilizzato dai rabbini del tempo di Gesù. Il relatore propone la riflessione in quattro punti e una conclusione. 1. Nel primo punto chiarisce il senso della formula nell’uso di Gesù come oggetto centrale della sua missione. Gesù parla del regno di Dio per indicare la possibile nuova manifestazione dell’azione di Dio nella storia umana attraverso la fedele accoglienza da parte delle creature e in particolare dei suoi discepoli che “tengono fisso lo sguardo su di lui” (cf. Eb. 3,1: 12,2). Il modo con cui Gesù viveva e annunciava questa venuta implicava la convinzione che la sua predicazione e la sua opera in vario modo anticipavano e prefiguravano il Regno in pienezza. Gesù spiega soprattutto nelle parabole le caratteristiche fondamentali del Regno di Dio: sta per venire ‘con potenza’ (Mc 9,1), ma per certi aspetti è già presente e operante; è interiore, ma suscita nuove strutture sociali; è invisibile, ma a chi ha lo sguardo di fede appare nei suoi segni, in particolare nelle guarigioni operate da Gesù; è piccolo (“il più piccolo di tutti i semi” Mt 13, 31. 32) ma è in grado di estendersi in tutto il mondo (cf. Mt 28,19); è nel mondo e per il mondo, ma non è di questo mondo perché è orientato a un regno definitivo e utilizza strumenti diversi da quelli dei regni terreni. “Per Gesù il regno di Dio è qualcosa che investe direttamente la vita sociale, riguarda la liberazione del popolo di Israele e il rovesciamento dei rapporti tra gli uomini; consiste nell’instaurazione di un nuovo ordine sociale” (Pesce M., L’esperienza religiosa di Paolo. La conversione, il culto, la politica, Morcelliana, Brescia 2012, pp. 90 s.). 2. Poi Molari illustra il cambiamento della prospettiva nelle prime comunità cristiane e in particolare in Paolo. Essi hanno atteso la venuta immediata di Cristo e in questo senso hanno trascurato l’annuncio del Regno di Dio o l’hanno identificato con la sua venuta imminente. Paolo distingue tra la venuta di Cristo che ha una funzione preparatoria e la venuta definitiva del Regno di Dio, che inizierà quando alla fine dei tempi Cristo “consegnerà il Regno a Dio Padre”(1 Cor15, 24). 3. Nel terzo momento esamina il cambiamento profondo che la prospettiva del regno ha subito con il quarto secolo (l’era costantiniana). Con l’acquisizione della libertà e poi del potere l’attesa della fine si attenua e anzi si prega “pro mora finis”, per il suo ritardo in modo da consentire lo sviluppo della Chiesa che in certo senso è considerata come l’anticipazione del Regno di Dio sulla terra. In tal modo l’Impero Romano viene presentato come la forza che impedisce l’esplosione ultima del male e quindi consente la dilatazione del regno di Dio sulla terra e ritarda la venuta del Signore. Interessante è il cambiamento avvenuto dopo Costantino nella interpretazione di un testo oscuro della letteratura paolina, la seconda lettera ai Tessalonicesi (2,7) dove si parla di una forza che trattiene (katéchon) la manifestazione dell’Uomo iniquo: “la tradizione cristiana ha visto nel katéchõn dopo la svolta costantiniana, lo stato romano: esso tiene a bada il potere del male escatologico e procura così alla chiesa il tempo necessario per diffondersi. Mentre il cristianesimo delle origini perseguitato cercava di accelerare la fine e pregava: «Maranatha. Vieni Signore Gesù» (Ap 22,20), la chiesa costantiniana pregava «pro mora finis», per la dilatazione della parusìa (2Pt 3,4), la chiesa di stato praticava tale dilatazione e rafforzò mediante una legittimazione teologica ‘colui che trattiene’” (Moltman J, Etica della speranza, Queriniana Brescia p. 26). In questa fase della storia vi è stato anche l’uso della violenza e la strumentalizzazione della legge per imporre la fede e per difenderla dagli errori. Il Regno di Dio è stato considerato soprattutto in prospettiva escatologica. 4.--Segue poi alla fine del secolo XIX e soprattutto nel secolo XX la riscoperta del tema da parte della teologia e, per il mondo cattolico, da parte del Concilio Vaticano II. La prospettiva evolutiva ha consentito l’interpretazione della progressiva crescita del Regno di Dio nella storia con lo stimolo della testimonianza e delle comunità ecclesiali, che riscoprendo il valore della non violenza si considerano a servizio della crescita dell’umanità per far fiorire un nuova umanità. Questa riflessione si sviluppa alla luce di una corretta interpretazione del rapporto Creatore e creatura, azione divina e libertà umana. Questo aspetto è stato troppo trascurato per cui è stato sviluppato un concetto inadeguato di Provvidenza. L’azione creatrice non sostituisce mai le creature ma le costituisce, non completa la loro azione ma la rende possibile. 5.-- La conclusione di Molari mette in luce la responsabilità delle scelte ecclesiali e in genere delle scelte umane in ordine alle forme nuove di condivisione dei beni della terra, alla giustizia e alla pace cioè alla crescita del Regno di Dio nella storia umana per consentire a tutti gli uomini di pervenire alla forma definitiva di vita dei Figli di Dio. Il pastore Eckert nelle varie fasi del suo articolato intervento ha sottolineato anzitutto 1 che cosa dicono i testi biblici, soprattutto del Secondo (Nuovo) Testamento sul “Regno/Signoria di Dio. Alcune preghiere cristiane fondamentali conservano l’invocazione del “Regno di Dio” (Padrenostro; “Maranathà” Apoc. 22,20b; preghiere in occasione di funerali. La presenza e la venuta del Regno di Dio e la presenza e la (nuova, seconda) venuta del Signore Gesù sono fondamentali per la fede di chi professa che Gesù Cristo è l’unico Signore, incarnato, vissuto, morto, risorto e asceso diventando così la Salvezza-in-persona. Il Regno di Dio ma anche il Regno di Gesù, il Figlio, fanno quindi parte del DNA della preghiera e dell’insegnamento cristiani. Di Dio che regna parlano già le Scritture d’Israele e, ovviamente, anche la tradizione intertestamentaria. La regalità di Dio riguarda comunque Israele, ma può assumere anche dimensioni cosmiche. L’ebreo Gesù, descrive il “Regno di Dio” tramite paragoni e parabole, illustrandone la realtà, la vicinanza, la diversità, il processo, le conseguenze e l’imminente venuta. E’ caratterizzato da amore, giustizia, comunione, speranza, condivisione, novità di vita. Il mistero del significato della venuta di Gesù il Cristo, cioè dell’incarnazione di Dio in Gesù di Nazareth, tocca quindi nel centro il mistero del significato del Regno di Dio. Questa misteriosa “commistione” viene interpretata bene da Origene (inizio III sec.), che descrisse Gesù come “auto-basileia” cioè come Colui che è la Signoria/il Regno di Dio in persona. Nel Nuovo Testamento si ha un’oscillazione tra due significati: regno o signoria di Dio; ma anche tra Regno presente (seppur nascosto) e futuro. Compare anche il concetto di Regno di Cristo in vista del compimento del Regno di Dio (ad es. in Paolo), di quel Cristo seduto sul trono del giudice nel Regno di Dio. La Comunità (chiesa) è quindi in una stretta relazione con l’annunciato Regno, ma non coincide con esso pur sperimentandone qui e là la presenza nella forza dello Spirito Santo. Affermazioni che hanno svolto un ruolo importante nelle successive re-interpretazioni della fede in Dio che regna, che è re, e che voglia estendere e far comparire il Suo Regno tra di noi e, quanto prima, in modo definitivo. 2 Nel procedere del suo intervento si è poi soffermato su che cosa ci dicono i testi biblici (soprattutto del Secondo Testamento) a proposito della “prassi storica”. I diversi autori e redattori dei testi contenuti nella Bibbia dei due Testamenti, senz’altro hanno ben diversi concetti circa ciò che noi consideriamo “storia”. La rivelazione di Dio avviene nella storia e anche come storia. La “Storia” è ciò che avviene nel mondo da Dio creato, nelle categorie di relazione, di tempo, di spazio, di finitezza. Per dirla con una categoria cara anche a Bonhoeffer: la “Storia” è il “penultimo” concesso (donato) da Dio in cui si svolge la vita delle creature di Dio cui Egli ha affidato anche dei “mandati”, nella speranza dell’”ultimo” cioè del compimento della storia. Pensando all’abbinamento tra “Regno e prassi storica”, si possono citare versetti significativi contenuti nel “sermone della montagna” (Mt. 5:3+10; 6:33). Vi è un forte nesso nell’insegnamento di Gesù tra pratica della giustizia e vicinanza, anzi promessa del Regno dei Cieli. Per quanto considerato una realtà futura, escatologica, il Regno di Cieli ha un legame concreto con la giustizia praticata, là dove “giustizia e diritto” sono la sintesi concreta per la volontà di Dio, per la vita responsabilmente vissuta di chi crede, e, a seconda della lettura dei testi biblici, anche di chi non crede ma agisce secondo giustizia. Nell’opera di Luca, invece, si presenta il mistero della salvezza di Dio in Gesù il Cristo all’interno di un chiaro concetto storico: periodo fino a Giovanni Battista; epoca della presenza di Gesù incluse la sua risurrezione e la sua ascensione; epoca che inizia con la discesa dello Spirito Santo. Nei testi paolini, prende importanza la tensione tra il “già” della salvezza avvenuto in Cristo Gesù morto e risorto e il “non ancora” che avverrà con la “parousia”. La prassi concreta dell’annuncio del Regno di Dio deve, però, comunque fare i conti con i “sistemi politici” dell’epoca in cui la buona novella di Cristo Gesù è stata diffusa. Non è un aspetto secondario, infine, che proprio sulla scorta di alcuni dei testi citati per ultimi, a proposito del rapporto tra la Comunità dei credenti e i poteri di “questo mondo”, e soprattutto nei testi di carattere apocalittico situati in contesti di aspro confronto tra la Chiesa e ad es. l’impero romano (persecuzioni, ecc.), si utilizzi proprio il concetto del “Regno di Dio” identificandolo quasi con il “Regno di Cristo-Corpo di Cristo-Chiesa” e, ovviamente, anteponendolo al regno del Signore di questo mondo. 3) Come hanno tentato chiese e credenti della tradizione protestante di interpretare l'annuncio e la realizzazione - sempre parziale e frammentaria - del Regno/della Signora di Dio nella cosiddetta storia, anche in riferimento al rapporto tra il cosiddetto “Regno di Cristo” e altri regni? Martin Lutero accentua l’opposizione tra “Regno di Dio” e “regno del Mondo” (antagonista a quello di Dio). Per attuare la Sua Signoria, Dio ha pertanto scelto due modalità – ecco i “due modi di regnare di Dio”: egli regna nella Chiesa cioè nel Regno di Cristo, per mezzo dell’annuncio del “vangelo” e della “legge”; mentre nel “regno del Mondo” in cui bisogna opporsi al male, su incarico di Dio deve regnare l’autorità costituita per mezzo della spada per garantire una civile convivenza. In Giovanni Calvino troviamo una suddivisione simile a quella operata da Lutero, pur inserita in un approccio teologico diverso che parte dal presupposto della signoria di Dio liberamente esercitata. Altri rami della Riforma protestante hanno proposto un’impostazione diversa che si ispira di più a testi biblici di carattere escatologico-apocalittico e, talvolta, anche alla tradizione millenarista. Trovano qui una ricaduta testi biblici che sottolineano un’escatologia nel presente, una maggiore identificazione tra il Regno di Dio e la Comunione dei Santi con alcuni risvolti quasi “teocratici”; per contro, ne consegue un distacco se non un’opposizione diametrale contro le autorità statali. Ad es. in Thomas Müntzer, si può riscontrare l’annuncio della grazia liberante di Dio che non può non sortire anche l’istituzione di una società senza classi. Alcuni di questi contenuti si possono poi ritrovare in ben altri contesti ad es. in varie “teologie della liberazione” del XX secolo. XX Secolo: Il movimento teologico del “Social Gospel”, tra il XIX e il XX secolo, in antitesi a una spiritualità e a una teologia che sottolineano l’interiorità e la separatezza delle comunità cristiane (protestanti) dal coinvolgimento con la sfera pubblico-politica, recupera l’importanza dell’impegno concreto e attivo dei cristiani nell’oggi, nel sociale, nella politica, pur sapendo che si tratta di una realtà “penultima”, dialettica, cronicamente imperfetta e quindi mai del tutto corrispondente alla volontà di Dio. Il luterano Dietrich Bonhoeffer sottolinea la tensione tra una forte speranza escatologica e la consapevolezza di un ruolo di testimonianza chiara e concreta della Signoria di Dio nella Chiesa e per mezzo di essa nella società. Il suo approccio sottolinea la centralità del Sermone della Montagna di Gesù per un’etica concreta nel “penultimo” “davanti all’ultimo”. - Il “Processo conciliare” ecumenico su giustizia, pace e salvaguardia del creato deciso dall’assemblea dello stesso WCC-CEC a Vancouver nel 1983 che in diversi modi si è sviluppato fino ad oggi, punta molto sul messaggio dell’annuncio del Regno di Dio in chiave di coinvolgimento concreto nella trasformazione del mondo operata dallo Spirito Santo già ora.
Dai comunicati stampa di Graziella Merlatti