Care amiche e cari amici,
forse due immagini più di altre sono capaci di esprimere questa nostra Pasqua “ferita”, come ferito è il Risorto. Una è cara all'iconografia dell'Occidente cristiano, l'altra alle Chiese d'Oriente.
L'arte occidentale mostra Gesù Cristo che esce dalla tomba vittorioso, il suo corpo però non è illeso, i segni lasciati dai chiodi restano. Il Risorto è solo; gli unici che sarebbero nelle condizioni di vederlo dormono ai suoi piedi. L'arte si sforza di far vedere quanto è colto dalla fede, non dagli occhi. I soldati siamo tutti noi quando viviamo la nostra condizione di «uomo vecchio»; lo sguardo del pittore è il simbolo dell'«uomo nuovo» (Ef 4, 22-24), chiamato nella fede, nella speranza e nell'amore a vedere l'invisibile e a vivere il visibile nell'incontro con il prossimo (1Gv 4, 20). Gli occhi di Gesù aperti sul mondo sono la certa primizia del giorno nel quale Dio sarà tutto in tutti (1 Cor 15,20-28). Il «Simbolo degli apostoli» recita: Gesù Cristo «fu crocifisso, morì, fu sepolto, discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte».
Per rappresentare l'irrappresentabile della resurrezione, l’icona orientale si concentra sulla discesa agli inferi. Le porte della prigione e della morte sono scardinate e colui che non è ancora asceso al cielo è già capace, nel cuore della terra, di prendere per mano Adamo ed Eva e, assieme ai progenitori, i loro discendenti. Il Risorto non è solo; il suo primo atto è curvarsi verso il basso per risollevare chi giace nelle profondità di esistenze che sembravano perdute per sempre.
Nella Pasqua 2020, così diversa da tutte le altre, è questa più che mai la nostra speranza.